Finanza

Il fascino ingannevole della piena sottoccupazione

Nei due decenni e poco più dall’inizio del secolo, in Italia si è assistito a una rapida crescita non di un’occupazione dotata di stabilità e tutele, quanto della sottoccupazione, sotto forme e tipi di lavoro frammentato (la moltiplicazione dei lavori) e vulnerabile: una sottoutilizzazione delle persone in termini di ore, istruzione e competenze. Le crisi economiche del 2008, del 2011 e i loro lunghi strascichi seguiti dal covid e poi dalle guerre hanno confermato la tendenza e spinto nella stessa direzione. Così pure l’avvento accelerato di una società dei servizi malregolati e arretrati è stata fonte rilevante di sottoccupazione. 

Nei numeri aggregati si alimenta l’illusione per l’Italia di andare verso la piena occupazione con andamenti stridenti rispetto a quelli della crescita del prodotto e del benessere, ma il fondamento appare sufficientemente chiaro: la sottoccupazione è stata la tendenza del periodo su cui si concentrano i capitoli di un recente libro da noi curato, che include una serie di approfondimenti su molti temi rilevanti curati da numerosi studiosi (Verso la piena sottoccupazione, a cura di R.Brancati e C.Carboni, Donzelli ed.). 

In primo luogo si presentano informazioni di scenario e di prospettiva, seguite da un’ampia e documentata sezione dedicata ai “numeri”, alla geografia e ai caratteri del capitale umano. Sono quindi affrontati i temi dei salari e dei redditi da lavoro, del Mezzogiorno e della vulnerabilità e del lavoro povero, con specifici approfondimenti dedicati all’economia sociale (terzo settore) e alle politiche attive. Si dedica un’ampia sezione alle tendenze della società che modificano nel profondo l’offerta di lavoro sia attraverso la tecnologia che agendo sulle identità e le culture del lavoro e sul rapporto tra tempi di vita e tempi di lavoro. Chiude il volume una lettura specifica delle realtà associative dei giovani e delle donne. 

Come si vede l’ambizione è quella di offrire un quadro molto articolato della società italiana e del mondo del lavoro con contributi afferenti a diverse aree disciplinari in cui trovare approfondimenti economici, sociologici e statistici.

Nel nostro paese la moltiplicazione dei mestieri e delle professioni solo in piccola parte (spesso in alcuni segmenti del settore manifatturiero) si è concretizzata in percorsi di alta qualificazione e di forte contenuto tecnologico; nella maggior parte dei casi ha determinato (in particolar modo nel terziario, ma non solo) percorsi segnati da scarsa qualificazione, ridotto valore aggiunto e bassa produttività: la flessibilità, predicata e auspicata, è divenuta sinonimo di precarietà, deprivazione, diffusione delle nuove figure dei lavoratori poveri, i working poor

Una delle ripercussioni della sottoccupazione, fenomeno vasto e frammentario, si ha in Italia nella stagnazione dei redditi da lavoro. Anche in questo caso, comprendere il fenomeno nel dettaglio non costituisce solo una questione per addetti ai lavori, ma è essenziale per collocare nella giusta dimensione i problemi. 

Come sottolineato nelle analisi svolte, i salari unitari del lavoro dipendente “standard”, anche nei segmenti con le remunerazioni più ridotte, presentano una discreta tenuta in termini di variazioni, pur con livelli sensibilmente inferiori a quelli di altri paesi europei con cui è possibile un confronto diretto. E tuttavia è soprattutto l’intensità dell’occupazione, vale a dire il numero medio di giornate e ore lavorate nell’anno, a determinare il volume insufficiente della massa salariale. Questo ci dà la misura di quanto la sottoccupazione italiana sia decisiva nell’abbassare la media dei redditi da lavoro e sia sinonimo di un monte salari depresso e deprimente. 

La sottoccupazione è anche un fenomeno targato socialmente lungo linee di discriminazione di genere e di età, vista la massiccia presenza di donne e di giovani. Nonostante giovani e donne siano più istruiti (ma non a sufficienza rispetto agli altri paesi europei) dei lavoratori più adulti e dei maschi, sono in gran parte relegati in posizioni marginali di lavoro e segregati sul piano professionale. La gran parte di loro costituisce una riserva di lavoro inespressa sia per una carenza di domanda, sia per una difficoltà di incontro da parte dell’offerta. 

I cambiamenti profondi più evidenti che hanno interessato il mercato del lavoro italiano in una prospettiva storica possono essere ricondotti a tre ordini di trasformazioni sistemiche, tuttora in corso. 

La prima riguarda gli spostamenti della produzione tra i settori. Da almeno tre decenni si è imposta una terziarizzazione più «minuta» e meno evidente dall’osservazione delle statistiche aggregate: si sono sviluppate nuove tipologie di lavori, si sono verificati fenomeni di disintegrazione della struttura dell’impresa – con l’emergere di attività separate, in una sorta di filiazione produttiva – e fenomeni di distacco delle attività terziarie da quelle strettamente industriali. In Italia queste dinamiche hanno assunto caratteri specifici, con una struttura produttiva particolarmente frammentata e, negli ultimi anni, si è assistito a un orientamento guidato in parte dalla comparsa di nuove attività e nuove funzioni grazie alla diffusione delle tecnologie digitali e, in misura non trascurabile, alla crescita della domanda di consumi nell’area del piacere e del tempo libero e in quella delle attività di cura delle persone.

La frammentazione si è estesa anche a nuove tipologie di lavoro flessibile e precario che offrono attività in crescita, quali i rider per le consegne, piccole attività stagionali, nel turismo e nella ristorazione, ma anche le infinite forme di precariato che si diffondono in molti campi delle attività economiche.

La seconda trasformazione coinvolge le tendenze demografiche, diventate un fattore determinante relativamente alle grandezze del mercato del lavoro, in misura particolare nelle sue proiezioni future. Nel libro viene proposto uno schema di lungo periodo che evidenzia in prospettiva carenze formidabili e squilibri sostanziali tra offerta e domanda di lavoro. Le dimensioni di questi fenomeni saranno elevatissime con una riduzione della popolazione in età da lavoro pari a circa 5,5 milioni di unità entro il 2040. La possibilità realistica di trovarsi di fronte a una carenza di offerta di lavoro, prevista nel giro di pochi anni, risiede, come sottolineato nel libro, nell’eventualità che si realizzino alcuni fenomeni, solo uno dei quali attiene alle trasformazioni tecnico-produttive del paese. 

La terza grande trasformazione sistemica riguarda appunto l’ambito tecnologico. Non solo con la tecnologia cambiano processi e prodotti, ma essa diviene la nuova infrastruttura che pone in relazione i vari sottosistemi. In Italia, questo cambiamento produttivo e infrastrutturale è in conclamato ritardo; ciò si riflette su produttività, qualità e quantità del lavoro. Investimenti in tecnologia sono forieri di maggiore produttività e qualità del lavoro, ma richiedono sia persone in grado di abilitare e ottimizzare la tecnologia sia una capacità innovativa imprenditoriale e organizzativa: due generi di risorse che in Italia scarseggiano. Infine, non è sufficiente accrescere la produttività, occorre interessarsi dei meccanismi di distribuzione del reddito che non sono mai automatici.

Esiste un legame stringente tra le problematiche del lavoro e quelle della capacità innovativa e della competitività. La disponibilità di competenze e la qualità del capitale umano rappresentano una condizione imprescindibile e sempre più ricercata per l’attività di tutte le imprese, specie per quelle più innovative e impegnate nella ricerca.

Lo scenario aggregato di una grave carenza potenziale di offerta di lavoro nel volgere di pochi anni, se è ampiamente prevedibile sul piano della dinamica demografica, lo è assai meno per la trasformazione tecnologica e digitale sottoposta a incrostazioni e vincoli che ne possono alterare fortemente le prospettive per quanto riguarda il matching tra domanda e offerta di lavoro 

Accanto a quelle sistemiche, vi sono le trasformazioni culturali e sociali a incidere sulle aspettative nel mondo del lavoro. Il neo-individualismo ha ormai assunto caratteristiche strutturali: è una cultura sociale che ha sganciato progressivamente le persone da un progetto collettivo primario come la famiglia, la religione, i partiti, la democrazia, l’Unione europea, a vantaggio della vita privata di corto raggio, estesa e miscelata con la componente virtuale: una caduta della sfera pubblica a vantaggio della personalizzazione. Questo declino di valori e significati collettivi investe inevitabilmente il mondo del lavoro e la sua cultura. Il lavoro continua ad essere importante per la maggior parte della popolazione perché necessario al sostentamento personale e della famiglia, ma nella scala dei valori, specie tra i giovani, è sceso nelle ultime posizioni. 

Se la cultura del lavoro declina, avanza la tendenza al disimpegno, la propensione a prendere le distanze rispetto al lavoro (quiet quitting), concepito sempre più solo come uno strumento di guadagno. La qualità del lavoro, obiettivo delle lotte sindacali di fine secolo, si è «individualizzata» e caricata di nuove esigenze, tra cui il bisogno di avere tempo da dedicare a sé stessi e alle attività di cura (accentuate dalla carenza di servizi collettivi); si è trasformata in qualità del rapporto tra tempo di lavoro e tempo di vita: una dimensione verso cui sempre più spesso si orientano le aspettative delle persone.

Sottoccupazione e mismatch tra domanda e offerta di lavoro sono due problematiche imparentate tra loro, così come con il genere, la età giovanile, l’istruzione, la formazione e con i territori svantaggiati appenninici e la grande area del Sud che mantiene in molte sue parti connotati di criticità. Il libro da noi curato ci parla di tutto questo, da angolazioni statistiche, economiche e sociologiche. L’obiettivo è avere cognizione del problema prima di pretendere di fare qualcosa per risolverlo. 

In conclusione, qualche linea guida inclusiva da adottare per affrontare le questioni qui richiamate può essere accennata. Ci sono quattro “vie” che andrebbero congiuntamente intraprese.

  1. La via tecnologica, della crescita della produttività, delle competenze e dei salari con l’attenzione dovuta alla distribuzione del reddito; perché possa avere impatti rilevanti a livello aggregato non deve interessarsi solo dell’industria, ma favorire in misura massiccia la trasformazione qualitativa del vasto mondo del terziario nei suoi poli (di consumo, da un lato, e di diffusione di alte competenze, dall’altro).
  2. La via del lavoro di cittadinanza, a compensazione del deficit secolare della domanda di lavoro, illusoriamente ombreggiata dall’alta sottoccupazione e dalla medio-bassa disoccupazione, associata a una domanda crescente e inevasa di beni collettivi. Da un canto, c’è un largo spreco di capitale umano, dall’altro la sfera pubblica è un ampio serbatoio di lavoro potenziale di cura del territorio,di assistenza e cura delle persone, di servizi alle famiglie, di ricerca nelle università e negli uffici studi pubblici, nelle scuole di ogni grado. Occorrerebbe un mix di stato finanziatore che si occupi non di un reddito, ma di un lavoro di cittadinanza, di un lavoro decente; di capacità organizzativa dell’economia sociale pubblico/privata.
  3. La via della contrattazione anche con forme di riduzione del tempo di lavoro (es. 4 giorni settimanali) contestualmente alla questione salariale. E’ anche questa una linea inclusiva che gli imprenditori dovrebbero percorrere se vogliono ottenere il meglio dai loro dipendenti.
  4. La via della formazione come paracadute necesario. Per ridurre il mismatch tra domanda e offerta e soprattutto per accrescere il livello di competenze disponibili per il sistema produttivo è essenziale il rafforzamento della formazione che va accompagnato con il potenziamento dei servizi qualificati che dovrebbero rappresentare un vero e proprio target anche della politica industriale.