Il Rapporto Draghi tra globalizzazione e nuova politica della concorrenza
Il Rapporto sul Futuro della Competitività Europea (Rapporto Draghi) ha già ricevuto attenzione nel Menabò. In questo contributo vorrei mettere in rilievo i suoi legami con la globalizzazione e analizzarne le implicazioni per la politica della concorrenza. Il punto di partenza del Rapporto è la debole crescita economica dell’Europa, rispetto a USA e Cina, che ostacola la risposta alle sfide costituite da contesto geopolitico, transizione energetica e sicurezza degli Stati membri. La minore crescita – che riflette una minore competitività e una stagnazione della produttività – è ricondotta a due debolezze strutturali: la frammentazione politica ed economica dell’Unione e la regolazione inadeguata dei mercati. Individuando tre obiettivi di policy (accelerare l’innovazione; ridurre i prezzi dell’energia; controllare la dipendenza europea per materie prime e catene del valore dal Resto del mondo), il Rapporto suggerisce una nuova “strategia di politica industriale” in quattro blocchi: (i) completare il Mercato interno per il pieno coordinamento delle politiche industriali e della concorrenza; (ii) accrescere, con un afflusso guidato di risorse finanziarie, la quota di investimenti sul PIL del 5%; (iii) dare spazio a decisioni comuni di politica economica reale; (iv) modificare la regolazione dei mercati.
È utile esaminare la portata e l’impatto del Rapporto Draghi alla luce del contesto internazionale e delle aspettative disattese sulla globalizzazione. Nella fase iniziale, la crescita degli scambi internazionali aprì ampie prospettive di mutuo vantaggio e fu salutata come auspicio di pace. La globalizzazione fu vista come frutto di una primazia delle economie di mercato e l’idea che l’Occidente si facesse carico unilateralmente dell’ordine internazionale fu accolta come non controversa. Col tempo, tuttavia, la globalizzazione ha avuto ricadute cospicuamente asimmetriche e ciò ha dato vigore a una domanda di governo multilaterale dei rapporti internazionali, specie da parte dei Paesi BRICS. Oggi, sulle relazioni economiche mondiali pesa una tensione tra i due modelli. In Occidente, assistiamo a una inversione degli orientamenti di policy che riflette la difesa di un governo unilaterale dei rapporti internazionali, in contrasto con la domanda di governo multilaterale.
Gli esiti deludenti della globalizzazione hanno spinto l’Occidente ad abbandonare l’iniziale visione pacifica e cooperativa del commercio mondiale. Negli USA, Trump ha seguito, nel primo mandato, un approccio protezionistico standard, imponendo dazi alla Cina e alla stessa Europa. La successiva presidenza Biden ha scelto invece un approccio di politica industriale e, con il Bipartisan Infrastructure Law; il Chips and Science Act e l’Inflation Reduction Act, si è proposta di sostenere i settori produttivi del Paese nella competizione globale attraverso interventi pubblici diretti. Con Biden, il cambiamento di policy non ha messo in discussione all’interno le norme antitrust che anzi sono state applicate con più rigore delle precedenti amministrazioni. In Europa, anche il Rapporto Draghi invoca una politica industriale a sostegno delle imprese europee nei rapporti internazionali. Diversamente dagli USA, il Rapportosollecita però anche una modifica della politica europea della concorrenza, motivandola come un aiuto a formare campioni europei.
Il Rapporto Draghi contiene, in sintesi, due messaggi. Il primo identifica, nel progetto incompleto di Unione europea, un ostacolo di fronte alle sfide globali e suggerisce, su questa base, di affidare all’Unione competenze di politica economica reale. Il secondo messaggio invita a pensare in modo nuovo la politica europea della concorrenza, come strumento di promozione della competitività europea nel contesto globale.
È merito del primo messaggio sottolineare (in linea anche con il Rapporto Letta) la necessità, per l’Unione Europea, di superare l’eredità di Maastricht che la ingessa nella combinazione di una politica monetaria in comune e una politica reale delegata agli Stati. La mancanza di una politica economica reale europea è stata vista ripetutamente come difetto essenziale dell’assetto istituzionale dell’Unione. Così, la mancanza di reti transnazionali ha ostacolato il Mercato unico delle Public Utilities. L’assenza di istituzioni comuni di Welfare ha vanificato la Direttiva Bolkenstein per un mercato unico dei Servizi. Più di recente, la lotta al cambiamento climatico è stata identificata come un bene pubblico europeo su cui fare convergere decisioni comuni di politica economica reale.
Più controverso è, invece, il secondo messaggio. Innanzi tutto, auspicando una modifica della governance dell’Unione che consenta decisioni comuni a favore della competitività europea nel contesto globale, il Rapporto identifica genericamente, come ambiti di intervento, innovazione tecnologica e decarbonizzazione, per destinarvi una significativa quota di investimenti sul PIL tramite finanziamenti orientati centralmente. Nelle finalità settoriali e nei modi di intervento, il Rapporto replica provvedimenti predisposti negli USA per contrastare la Cina nel controllo della frontiera tecnologica, in particolare nella transizione energetica. Ciò che manca nel Rapporto è una riflessione sul ruolo che può svolgere l’Europa in un contesto condizionato dal confronto USA-Cina. Ben oltre un vuoto di disegno sulla collocazione europea nella divisione mondiale del lavoro, il richiamo di finalità e ambiti di intervento della politica statunitense segnala una rinuncia dell’Europa a valorizzare – contro la sua stessa originaria vocazione politica – la portata pacifica e cooperativa del commercio internazionale, peraltro condivisa, all’inizio della globalizzazione, in tutto l’Occidente.
Perplessità maggiori suscitano le riflessioni sulla politica della concorrenza in Europa. Rispetto a una visione della concorrenza internazionale, salutata all’avvio della globalizzazione come meccanismo sistemico di mutuo vantaggio e di cooperazione pacifica, il Rapporto privilegia una visione rivale e darwiniana della concorrenza e fa appello, su questa base, a pensare in forma nuova la politica antitrust europea. Le revisioni proposte – che peraltro non trovano appiglio nel cambiamento di policy in USA – pongono innanzi tutto in discussione (al di là di un facile lip service) il ruolo consolidato della politica della concorrenza nell’assetto europeo. Ma, soprattutto,il Rapporto inferisce tensioni tra politica industriale e tutela della concorrenza sulla base di preoccupazioni non condivisibili analiticamente. Specificamente, che la norma antitrust ostacoli il contributo delle imprese alla innovazione tecnologica, alle politiche di decarbonizzazione e alla riduzione della dipendenza nelle materie prime o nelle catene del valore. Il Rapporto presuppone infatti che l’antitrust contrasti in linea di principio l’organizzazione di processi produttivi efficienti e impedisca alle imprese di collocarsi, dal punto di vista statico, su dimensioni di minimo costo e, in una prospettiva dinamica, su dimensioni adeguate agli investimenti in ricerca e sviluppo.
Su questo presupposto, infondato, il Rapporto suggerisce di aggiornare la politica della concorrenza, giustificando di per sé le concentrazioni che danno luogo a grandi imprese nel timore che la valutazione antitrust ne metta intrinsecamente a repentaglio la capacità innovativa (innovation defense). La tutela della concorrenza però non ha nulla a che vedere con l’esaltazione di un mondo jeffersoniano di piccole imprese e piccoli mercati. In America l’antitrust nacque quando le basi tecnologiche su cui si reggeva quel mondo vennero meno; quando la rivoluzione dei trasporti, ampliando grandemente i mercati, aprì la via, alle imprese – che, avvalendosi di economie di scala o di diversificazione devono essere grandi per essere efficienti – per conseguire un potere di mercato che ostacola il confronto concorrenziale anche tra imprese efficienti. In questo quadro, il diritto antitrust non forza le imprese a essere piccole e inefficienti, ma distingue tra strategie lecite e illecite per evitare l’esercizio anti-competitivo del potere di mercato da parte delle imprese grandi.
Il Rapportooffre un resoconto inadeguato dei criteri antitrust di governo dei mercati di concorrenza imperfetta, perché dà un rilievo improprio agli aspetti strutturali, ignorando che la finalità antitrust è il controllo dell’esercizio del potere di mercato. Cosa sia monopolizzazione illecita (in USA) o abuso di posizione dominante (in Europa) per imprese che devono essere grandi per essere efficienti è domanda cruciale nell’analisi dei mercati di concorrenza imperfetta. Oggi, negli USA, dopo aver posto un freno a una deriva ideologica della scuola di Chicago che ha guardato peraltro con favore alle imprese di grandi dimensioni, la valutazione antitrust individua sistematicamente, con un approccio rigoroso di Industrial Organization, i vincoli cui sottoporre l’esercizio del potere di mercato delle grandi imprese, senza costringerle a essere inefficienti. Analogamente, in Europa, la politica della concorrenza valuta una concentrazione di ostacolo alla concorrenza se pone l’impresa in condizione di mettere in atto strategie abusive.
I fattori strutturali incidono ovviamente sulla capacità di un’impresa di perseguire strategie abusive. Ma il suggerimento di allontanarsi da una consolidata politica europea della concorrenza suscita serie perplessità quando il Rapporto Draghi propone di aggiornare le valutazionidi concentrazioni, che per ragioni strutturali possono rafforzare l’esercizio abusivo del potere di mercato, per favorirle facendo leva in principio su una innovation defense. Innanzi tutto, la fonte delle difficoltà alle quali si vuole porre rimedio è colta in modo ambiguo: nelle dimensioni insufficienti delle imprese europee che preoccupano il Rapporto sono in gioco ostacoli di natura diversa e di impatto di gran lunga maggiore della politica della concorrenza. L’insufficiente completamento del Mercato interno ha facilitato sistematicamente politiche degli Stati in difesa di strutture produttive nazionali inefficienti. Sotto questo aspetto, il primo messaggio del Rapporto coglie le cause della debolezza europea ben più del secondo; anche perché, in un contesto istituzionale frammentato, allontanarsi da criteri consolidati di politica della concorrenza incentiva una competizione politica tra Stati nel difendere e imporre propri campioni nazionali, con effetti disgreganti.
Ma la perplessità maggiore resta di natura teorica: i presupposti analitici su cui si reggono le tesi del Rapporto su mercato e concorrenza sono fragili e ampiamente criticati nel dibattito accademico. L’analisi economica offre un sostegno traballante a una innovation defense nel valutare concentrazioni che creano imprese di grandi dimensioni. Nei mercati di concorrenza imperfetta, favorire (con interventi diretti o con la politica della concorrenza) monopoli privati per facilitare investimenti in Ricerca e Sviluppo è lungi dal fondare aspettative favorevoli di innovazione, produttività e competitività. Al contrario, minaccia di assecondare lo sviluppo di un capitalismo monopolistico con caratteristiche simili (se non amplificate) rispetto a quelle che caratterizzarono il ventennio interbellico del secolo scorso in Europa.
Come avvertiva allora John Hicks, obiettivo del monopolista non è innovare, bensì avere una quiet life. Oggi, a dare forza a questa congettura è una cospicua attività di ricerca (raccolta da M. Kurz, The Market Power of Technology: Understanding the Second Gilded Age, Columbia University Press, New York, 2023): con imprese di dimensioni elevate, la concorrenza tecnologica, anche se c’è libertà di entrata nel mercato, tende a equilibri inefficienti con uno o pochi vincitori che godono di un potere di mercato stabile, tecnologicamente protetto, e con livelli di prodotto, investimenti e tasso di crescita tutti inferiori ai valori potenziali. Mancando un controllo antitrust a supporto dell’operare di concorrenti, l’esito plausibile sono sentieri di innovazione lungo i quali le strategie competitive che sfidano la tecnologia vincente sono sistematicamente ostacolate e i profitti, anche se originariamente di innovazione, si trasformano in rendite.