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Finanza

Reagire all’attacco contro l’Università

Quello appena concluso è stato un autunno caldo anche per l’università. Dopo un’assemblea nazionale e uno sciopero del comparto istruzione e ricerca a fine ottobre, a novembre si sono viste manifestazioni in tante città (il 15/11) e un’inedita partecipazione del settore allo Sciopero Generale (il 29/11), con iniziative universitarie in tutta Italia – da cortei come quello di Pisa, al “blocco” del Campus Einaudi a Torino. Il tutto intervallato da presidi, mozioni nei dipartimenti e nei senati, e il diffondersi a macchia d’olio di “assemblee precarie”. Il sostanziale disinteresse dei media tradizionali fa sì che anche chi nell’università ci lavora possa chiedersi il perché di tanta agitazione. Torna utile dunque un riassunto che, tuttavia, non può esser breve, anche escludendo la parallela vicenda dei Precari Uniti del CNR, e quelle “settoriali” che ad esempio, a medicina, riguardano la riforma del numero chiuso e le condizioni sempre più insostenibili degli specializzandi. Se a giugno il sociologo Lorenzo Zamponi parlava di “doppio colpo all’università”, sei mesi dopo si è perso il conto dei cazzotti piovuti sulla comunità accademica.

Il primo, annunciato in estate, è il DDL 1240 (c.d. “DDL Bernini” o “riforma del preruolo”). La materia è complessa – se può servire, una spiegazione più didattica è qui. In sostanza, si tratta di un feroce passo indietro rispetto alla già difficile situazione attuale. Nel 2022, il c.d. DDL “Verducci” prevedeva il superamento delle vecchie figure (assegnisti, Rtd-A e B) con l’introduzione di due sole tipologie contrattuali: il Ricercatore Tenure Track (RTT), di sei anni, con prospettive di stabilizzazione; e il Contratto di Ricerca, biennale. A differenza dei vecchi assegni, il Contratto rispondeva a un principio semplice quanto rivoluzionario per l’università italiana: il postdoc (cui si accede, è bene ricordarlo, dopo aver completato l’intero percorso di studi, dottorato incluso, e dunque ben formati e dentro l’età adulta) è un lavoro, e come tale va considerato, per quanto riguarda inquadramento, contributi, ferie, e via dicendo. Compresa l’IRPEF, senza la quale non si accede a nessuno dei pur discutibili “bonus” (ultimo quello maternità). A questo, il Contratto aggiungeva la contrattazione collettiva – non prevista per le altre figure, né del preruolo né di ruolo.

Com’è noto, il Governo Draghi ha approvato questa norma senza prevedere finanziamenti ulteriori, che permettessero di far fronte al corrispondente aumento del costo del lavoro -prevedendo, anzi, che la spesa per i nuovi contratti non superasse quella precedentemente destinata agli assegni. Permettendo poi di utilizzare solo assegni e RdtA nei progetti finanziati con la pioggia una tantum di fondi PNRR, si è messa in moto l’esplosione inedita di queste figure precarie (Figura 1). Dopo aver prorogato per due anni gli assegni, il DDL Bernini – applicando alla lettera la bozza preparata da una commissione presieduta dall’ex Rettore del Polimi e Presidente Crui, Ferruccio Resta – prevede di aggiungere a Rtt e Contratto di Ricerca quattro ulteriori figure: i) il Contratto post-doc, simile a quello di Ricerca ma annuale e senza contrattazione collettiva; ii) un “professore aggiunto” di tre anni, nominato direttamente dalla governance degli atenei, senza bisogno di abilitazione scientifica e senza limiti alla retribuzione, che rischia contemporaneamente di istituzionalizzare la docenza a contratto precaria e aprire a dinamiche inquietanti; ma soprattutto: iii) e iv) due figure di Assistente alla ricerca junior e senior – che nel testo del DDL vengono definite di “borsisti” e sembrano la riesumazione al ribasso degli assegni. Una precarietà à la carte, per cui, mentre si dà la possibilità a chi vince progetti europei (in cui assegni e borse non sono rendicontabili) o ha molte risorse di pagare di più, si permette ai “poveri” di continuare ad assumere con pseudo-contratti.

In tutto questo, scaduta il 1 gennaio la proroga agli assegni, è al momento impossibile attivare nuovi contratti postdoc. La contrattazione collettiva del Contratto di Ricerca si è infatti trascinata fino al 9 ottobre. Come da prassi, da quel momento è iniziato l’iter di validazione delle diverse controparti, e poi delle “bollinature” da parte degli organi competenti – come il MEF, dove è attualmente fermo. È sperabile che la procedura si chiuda entro gennaio, a quel punto saranno le singole Università a dover redigere e approvare i regolamenti relativi alle loro mansioni e a procedere ai bandi. Tempi ancora più lunghi vanno considerati per l’eventuale entrata in vigore delle nuove figure previste dal DDL, che è ancora in Commissione al Senato. Anche ipotizzando accelerazioni, non sembrano esserci i tempi per un’approvazione alla Camera prima di aprile; da allora, il MUR avrà 60 giorni per emettere i decreti rilevanti su dettagli non banali, come ad esempio se gli Assistenti alla ricerca godranno o meno della indennità di disoccupazione (Dis-coll). A quel punto, di nuovo, toccherà agli atenei preparare i regolamenti interni, per bandire, ad essere ottimisti, non prima di luglio. Una situazione paradossale nel momento in cui, il 27 gennaio, scade il bando Fis3 – 475 milioni assegnati a progetti di minimo 1 e massimo 1.3 milioni di budget. La natura di questo bando meriterebbe altra discussione, ma chiedere di elaborare progetti prevedendo come unica forma contrattuale ammissibile un contratto – quello di ricerca – ancora inapplicabile, ha del paradossale. Che sfocia nel grottesco dato che, chiariscono le FAQ, lo stesso contratto potrà essere applicato agli eccellenti, meritevoli vincitori dei progetti Starting – a una distanza compresa tra i 2 e i 7 anni dalla discussione del dottorato – che non avessero già un inquadramento stabile. E che si troverebbero a gestire un progetto milionario con lo stesso inquadramento contrattuale di chi assumeranno, senza nessuna possibilità di stabilizzazione da parte dell’università che beneficerà di una percentuale di quel milione.

Ad aggravare la situazione, il Governo rispolvera i tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). Contro ogni smentita, il Decreto Ministeriale n. 1170 del 07-08-2024 che, come ogni anno, stabilisce i criteri di riparto dell’FFO 2024, ne certifica il taglio di 173 milioni rispetto al 2023 – primo taglio nominale dal 2015. In termini reali, le risorse erano già in calo – almeno dal 2020, quando, secondo la serie ricostruita dall’FLC-Cgil, avevano appena recuperato i livelli pre-Gelmini – un andamento confermato dalla serie in rapporto al Pil elaborata da Rocco De Nicola e Giovanni Dosi (Figura 2). A questi 173 vano aggiunti 340 milioni, vincolati ai piani di reclutamento stabiliti nel 2022, che portano alla stima di “mezzo miliardo di tagli”. Come se non bastasse, l’entrata a regime degli aumenti delle retribuzioni del personale porta l’FLC-Cgil a prevedere un ulteriore aumento di spesa di 300 milioni rispetto al 2022. Dopo le proteste della CRUI, il Ministero ha acconsentito a cambiare destinazione alle risorse del piano straordinario; in parole povere, di coprire le spese in aumento tagliando le assunzioni, come già annunciato da molti atenei che faticheranno a chiudere i bilanci. Un ulteriore taglio di 702 milioni nel triennio 2025-27 è stato previsto dalla finanziaria, assieme al blocco del turnover al 75% nel 2025, come tutta la PA. Un definanziamento che, come denuncia da anni Gianfranco Viesti, non potrà che impattare diversamente sugli atenei delle aree più svantaggiate del paese, confermando le tendenze degli anni passati.

Una tendenza più recente, ma già preoccupante, è l’esplosione delle università telematiche – discussa sul Menabò da Flaviana Palmisano. Proprio mentre gli atenei pubblici, privi di risorse, non hanno idea migliore che alzare le tasse universitarie, le telematiche li svuotano di migliaia di iscrizioni (anche grazie alle evidenti storture, documentate sempre da Palmisano, riguardanti modalità d’esame e rapporto docenti/studenti). Col cosiddetto “Decreto Bandecchi”, il ministero si è preoccupato di “salvare le università telematiche” – “business opaco” cui, oltre al sindaco di Terni, partecipano anche figure “progressiste”, come Luciano Violante presidente di Multiversity, nel cui advisory board siedono altre figure “istituzionali”. Multiversity- che, con Pegaso, Mercatorum e San Raffaele, conta più iscritti della Sapienza – è controllata dal fondo britannico Cvc Capital Partners: nel 2019, infatti, il Consiglio di Stato ha permesso alle Università di configurarsi come società di capitali.

Un’altra novità è quella denunciata dall’Associazione italiana per la promozione della scienza aperta: tra le righe del DDL “Sicurezza” si nasconde l’obbligo per “ chi lavora nelle università e negli enti di ricerca a collaborare con i servizi segreti” – con ricadute potenzialmente inquietanti, come denuncia anche Tomaso Montanari.

Dulcis in fundo, dopo la nomina a inizio luglio di un primo gruppo di lavoro ristretto, presieduto da Ernesto Galli della Loggia e composto tra gli altri da Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, il Decreto Ministeriale n. 1591 del 20-9-2024 ne ha istituito un secondo, più ampio, “per lo svolgimento di attività di supporto al Ministro per analisi, studio ed elaborazione di proposte di revisione in materia di reclutamento e di qualità dell’offerta formativa, dell’assetto e della governance della valutazione dell’università e della ricerca, nonché di revisione della struttura e del funzionamento degli organi consultivi del Ministero dell’università e della ricerca”. Questo “tagliando alla Gelmini”, come è stato definito, vedrà la luce in un contesto più preoccupante del “tradizionale” disinteresse per l’università della politica italiana – se il centrodestra ha firmato i maggiori tagli, e il centrosinistra può attribuirsi le poche fasi espansive (nei tardi anni ‘90 e poi nel biennio post-pandemico), questo non si è mai intestato la necessità di portare fondi e laureati ai livelli dei nostri partner europei, e ha anzi firmato l’impianto generale di quella che lo storico dell’educazione Andrea Mariuzzo definisce “l’università neoliberale all’italiana”. Non solo in Italia, infiamma la guerra culturale delle destre contro l’università: “the professors are the enemy”, per dirla con il prossimo vicepresidente Usa, che ha anche dichiarato di ammirare il primo ministro ungherese Viktor Orban per “il principio per cui i contribuenti debbano avere voce sulla gestione delle università”. Se la ministra Bernini ha sdegnosamente respinto i paragoni con Orbán, è legittimo chiedersi se il Presidente del Consiglio sottoscriva.

Come per il pianeta, insomma, i prossimi autunni dell’università si prospettano molto caldi: fin troppo realistica è la salace distopia “futurista” immaginata da Mario Pianta, presidente della Società italiana di economia, tra i promotori di un’inedita mobilitazione di oltre cento società scientifiche che, a differenza della CRUI, hanno preso posizione non solo contro i tagli, ma anche contro il DDL Bernini. Dopo aver promosso un importante incontro all’Unistrasi, la Rete delle società scientifiche ha partecipato con sindacati e associazioni di docenti, dottorandi e studenti il 20 dicembre agli Stati di agitazione dell’università, in concomitanza dei poco opportuni “Stati generali” convocati a Montecitorio dalla CRUI. Una nuova “settimana di agitazione” è prevista a fine gennaio (27-31), quando la Riforma dovrebbe essere discussa in Senato, mentre il movimento studentesco pisano lancia un appello per nuove mobilitazioni studentesche, e un’Assemblea nazionale delle assemblee precarie si terrà a Bologna l’8-9 febbraio, anche per dar modo ad una componente cresciuta a dismisura negli ultimi anni di incontrarsi e organizzarsi. A doversi organizzare, però, non è solo la componente precaria dell’università. Se quest’ultima è facile preda dei ‘colpi’ qui riassunti, è anche perché il suo personale è quasi interamente non sindacalizzato, e in generale, poco incline all’azione collettiva e a sentirsi parte di una comunità di lavoratrici e lavoratori. Per resistere ai ‘colpi’ del governo, però, non basterà firmare un appello, scrivere un tweet salace, o anche un articolo come questo: è necessario partecipare, alle assemblee – in primis quelle convocate dai precari – e alle mobilitazioni; fare rete, anche iscrivendosi – perché no? – ad associazioni o sindacati; parlare coi colleghi, e anche con gli studenti, che sono le prime vittime di un’università pubblica definanziata. Difficile che il paese si renda conto di cosa rischia di perdere, se chi lavora nelle università non glielo spiega.