Finanza

Concessioni e privilegi: il caso delle reti elettriche

Un emendamento della legge di bilancio sancisce l’estensione per venti anni delle concessioni delle reti di distribuzione elettrica, che erano prossime alla scadenza. Le modalità scelte dal governo rappresentano una mancata opportunità di rafforzamento di una filiera strategica per lo sviluppo del paese, e soprattutto aumenteranno il già elevato costo dell’energia per i consumatori, a vantaggio unicamente degli azionisti delle società concessionarie, in maggioranza privati.

Breve riassunto della situazione. I proprietari e gestori delle reti elettriche operano in Italia in regime di monopolio come ovunque nel mondo (parliamo di Enel e delle municipalizzate come A2A, Acea, Hera, Iren e decine di altre più piccole). Nel nostro paese operano in regime di concessione da parte dello stato. Secondo il decreto Bersani dell’anno 1999, tali concessioni sarebbero andate in scadenza nel corso dei prossimi anni, e avrebbero dovuto essere riassegnate a seguito di gare competitive.

Un emendamento alla legge di bilancio appena approvata (l’emendamento numero 7, per la precisione) ha allungato di altri vent’anni tutte le concessioni, eliminando ogni obbligo di gara o similia.

L’intenzione di evitare la procedura di gara per il rinnovo perlomeno delle grandi concessioni è condivisibile. Solo la loro predisposizione avrebbe occupato centinaia di risorse per mesi se non per anni (le gare per il rinnovo delle molto più piccole concessioni distribuzioni gas si trascinano da decenni), lunghissimi strascichi legali sarebbero stati inevitabili, il tutto a fronte di una probabilità pari quasi a zero di cambio concessionario. Le dimensioni delle reti Enel e delle grandi municipalizzate (che insieme servono più del 90% degli utenti) sono tali per cui un “take over” da parte di operatori industriali stranieri sarebbe stato impossibile. Al mondo esistono solo due soggetti che avrebbero dimensioni e capacità per rilevare grandi reti metropolitane: uno è l’Enel, l’altro è la spagnola Iberdrola, che al più avrebbe puntato a qualche concessione di medie dimensioni. Peraltro, la storiella che le gare non andavano fatte causa “mancata reciprocità” da parte di altri paesi ha scarso fondamento: più di metà delle reti elettriche spagnole, inglesi e anche tedesche è posseduta e gestita da operatori non nazionali. Enel è l’operatore più grande in Spagna, ma anche in Colombia, Brasile, Cile e Argentina.

Ma il modo scelto per farlo è stato scellerato. La tempistica in cui questa decisione è stata presa da sola genera forti sospetti. Il decreto Bersani fu approvato dopo mesi di discussioni pubbliche tra posizioni diverse (semplificando: c’era chi voleva uno spezzatino delle reti dell’Enel all’inglese e chi invece ne voleva conservare l’integrità). Questo decreto è comparso all’improvviso nella finanziaria, senza alcuna discussione preventiva.

Innanzitutto, si è persa l’occasione di consolidare un settore troppo frammentato. La proroga generalizzata consentirà alle decine di municipalizzate di dimensioni minuscole di evitare aggregazioni con soggetti più grandi. Ci sono circa 100 imprese di distribuzione che servono meno di 25.000 clienti: se fossero integrati in soggetti come Enel (che ne serve circa 32 milioni) si conseguirebbero efficienze ed economie di scala, rafforzando tutta la filiera italiana.

Inoltre, questo decreto non aumenterà di un euro gli investimenti futuri. Grazie al regime tariffario vigente da quasi trent’anni, tutti i concessionari hanno da sempre convenienza a massimizzare gli investimenti nel più breve tempo possibile (più investono e più profitti fanno). La proroga delle concessioni non cambia la situazione, anzi paradossalmente potrebbe rallentare gli investimenti (se decade il rischio di rimpiazzo, c’è meno urgenza a investire per migliorare il servizio.

Ma il vero scandalo è un altro. Il decreto prevede che i concessionari versino un contributo una tantum allo stato in cambio dell’estensione delle concessioni. Giustissimo, si potrebbe dire. A queste aziende viene concesso di continuare a fare profitti in regime di monopolio per i prossimi vent’anni senza alcuna gara (come era viceversa previsto); corretto che girino una parte dei futuri profitti allo stato per questo privilegio. Ma, con una trovata senza precedenti nel mondo, la nuova legge stabilisce che i concessionari recupereranno tale contributo in tariffa, addirittura maggiorato del loro presunto costo del capitale. Per intenderci: supponiamo che Enel e le varie municipalizzate versino 10 miliardi allo stato come obolo pro-estensione (la cifra esatta non si sa, ma sicuramente parliamo di cifre in questo intorno). Questi 10 miliardi andranno poi immediatamente ad aumentare le tariffe intascate dai concessionari, addirittura maggiorati secondo un tasso annuo che attualmente è pari al 5,6% (costo del capitale regolato fissato dall’Autorità di Regolazione dell’Energia, ARERA). Di fatto si tratta di un gigantesco trasferimento di denaro da parte dei cittadini italiani agli azionisti delle società di distribuzione elettrica. Queste ultime anticiperanno l’obolo finanziandosi a tassi molto più bassi del 5,6%, ricavandone quindi un profitto a dir poco generoso considerato che il rischio e la fatica necessari allo scopo saranno pari a zero (un bonifico allo stato e una modifica alle bollette). Ipotizzando uno spread di un centinaio di punti base (il minimo) parliamo di margini garantiti di qualche centinaio di milioni all’anno per i prossimi vent’anni in cambio di una pura operazione di trasferimento liquidità a rischio quasi nullo. Lo stato di fatto impone una tassa ai cittadini (perdipiù gravando sui già elevatissimi costi dell’energia), di fatto autorizzando l’esattore privato a stampare moneta a suo favore.

Il legislatore nella fretta non si è nemmeno accorto degli incentivi perversi che questo meccanismo genera: più alta la “tassa” da pagare più aumentano i profitti degli operatori, grazie all’arbitraggio finanziario. Sia il venditore (lo stato) che l’acquirente (le aziende distributrici) hanno interesse ad alzare il prezzo, che poi pagheranno gli utenti. Da notare che gli azionisti degli operatori sono in maggioranza privati e spesso fondi stranieri (esempio: il MEF detiene meno di un quarto delle azioni Enel).

Questo obbrobrio inaudito che aggraverà ulteriormente le bollette energetiche italiane dimostra la scarsa per non dire nulla comprensione del settore energetico che affligge il governo, come già faceva sospettare la ridicola liberalizzazione del mercato elettrico, grazie alla quale chi è rimasto a tariffa regolata paga di meno.

C’erano molti altri modi per estendere le concessioni in modo virtuoso e a vantaggio dei consumatori, allo stesso tempo ricavandone dei proventi per lo stato. Invece che aumentare i profitti dei distributori aumentando le tariffe agli utenti, si poteva (anzi si doveva) abbassare le loro rendite, abbassando il tasso di rendimento regolato in virtù del diminuito rischio regolatorio. La cosa sarebbe stata più che equa: l’estensione non era dovuta in base alle leggi vigenti.

E se lo stato avesse voluto ricavare delle risorse finanziarie da questa estensione, non si sarebbe dovuto farle sborsare ai già molto vessati consumatori. Non sarebbe stato iniquo chiedere agli operatori una tassa una tantum per l’estensione, sic et simpliciter (si fa per le licenze dei tassisti). Si poteva esigere o incentivare lo scorporo delle società delle reti da parte dei soggetti attualmente proprietari, successivamente da quotare in borsa o da vendere a istituzioni finanziarie per girare il ricavato allo stato. Progetti simili circolano da parecchio tempo e sarebbero stati attuabili in tempi brevi.

Insomma, sarebbe stato assolutamente possibile rafforzare il settore industriale energetico italiano, abbassare i costi dell’energia e rimpinguare le finanze pubbliche in modalità trasparenti ed eque per tutti. Succederà il contrario. Gli astronomici costi dell’energia in Italia, i più alti al mondo, non dipendono dal green deal e neanche da Putin. La colpa è delle scelte fatte in piena autonomia da nostri enti governativi. Insomma, ce la siamo voluta noi

Che ruolo hanno giocato le aziende concessionarie (Enel e municipalizzate varie) in tutto questo? Qualche domanda bisognerebbe porsela. Il settore energetico italiano è in mano, per quasi il 100%, ad aziende che, pur avendo azionisti privati, sono controllate da amministrazioni pubbliche (centrali o locali). Nessun paese in Europa ha una simile concentrazione pubblica. In Spagna e in UK (ad esempio) le reti sono gestite interamente o quasi da soggetti privati. Ciò nonostante, l’Italia è il paese con i più alti costi dell’energia elettrica in Europa, la maggiore dipendenza dall’estero per i propri fabbisogni (utilizziamo gas metano importato più di chiunque altro), la minore presenza di fonti autoctone come solare e vento e (guarda caso) i più alti margini per gli incumbent. Evidentemente la presenza (anzi il dominio) dello Stato è assolutamente inutile ai fini del miglioramento della competitività del paese. Potrebbe essere addirittura dannosa? Il sospetto è che i vertici delle partecipate, in virtù della loro strutturale vicinanza al governo (partecipate significa nomine politiche per definizione) finiscano per, diciamo così, “ispirare” molte scelte governative in materia energetica. Scelte che purtroppo finiscono per favorire esclusivamente gli interessi dei loro azionisti (vedi finta liberalizzazione retail energia). Sarebbe perlomeno doveroso qualche chiarimento da parte del governo sul chi e come abbia partorito lo scellerato emendamento. La fretta e furia (e segretezza) con cui il decreto è stato presentato e votato fa nascere moltissime domande, al pari del silenzio assordante sulla materia di Enel e delle altre municipalizzate fino ad oggi. Ma, del resto si sa, a caval donato non si guarda in bocca.

Esistono margini per limitare i danni? L’ARERA (Autorità di Regolazione Energia) ha un ruolo determinante per farlo. L’estensione delle concessioni è subordinata all’approvazione entro 180 giorni da parte dell’Autorità dei piani di investimento degli operatori per i prossimi venti anni. Fare piani di investimento per i prossimi vent’anni è semplicemente ridicolo. Neanche il Gosplan dell’Unione Sovietica arrivava oltre i dieci (pensate: venti anni fa i pannelli solari e pale eoliche rappresentavano una frazione minima dell’installato e nessuno neanche immaginava la transizione energetica). L’ARERA potrebbe rifiutarsi di prestarsi a questa buffonata, e agire in tre direzioni parallele. In primo luogo, potrebbe esigere molto più tempo per valutare i piani di investimenti (in UK il regolatore ci ha messo due anni per approvare il piano a otto anni della sola rete di trasmissione). Questo se non altro rinvierebbe l’aggravio tariffario. Inoltre, potrebbe introdurre e rafforzare le penali per i distributori in caso di non raggiungimento di determinati livelli di servizio, come interruzioni, guasti e tempi di connessione (questi ultimi sempre più tasto dolente). Infine, potrebbe a buon diritto imporre una significativa riduzione del tasso di rendimento garantito sul capitale, in virtù dell’oggettivo abbattimento del livello di rischio dell’attività. Queste tre cose assieme potrebbero ridurre in gran parte l’aumento delle tariffe e migliorare la qualità del servizio, che secondo molti rapporti indipendenti da qualche tempo langue.