Finanza

Storia dell’ economia: una disciplina da salvare

Il 29 gennaio di quest’anno, sul Sole 24 ore, è comparso un appello per promuovere l’istituzione di nuovi dottorati dedicati alla Storia dell’economia. L’appello promosso da Piero Barucci, e co-firmato da Giuliano Amato, Pierluigi Ciocca, Claudio de Vincenti, Elsa Fornero, Giorgio La Malfa, Romano Prodi, Alberto Quadrio Curzio, Paolo Savona e Ignazio Visco, ha rapidamente accolto oltre 200 adesioni da parte di colleghe e colleghi, giovani e senior dall’Italia e da pochi giorni anche dall’estero. L’Associazione italiana per la storia del pensiero economico (AISPE) e l’Associazione italiana per la storia dell’economia politica (STOREP), così come L’Associazione italiana per la ricerca in storia economica (ARISE), la Società italiana degli storici economici (SISE), l’Associazione Francesca Duchini per lo studio del pensiero economico, il Centro interuniversitario di documentazione sul pensiero economico italiano (CIPEI), l’Istituto Luigi Einaudi e la Fondazione Raffaele Mattioli si sono unite nel sostenere le ragioni dell’appello lanciato da Barucci.

Per capire il contesto nel quale nasce l’appello e i motivi per i quali è necessario sostenerlo dobbiamo fare un passo indietro, chiarendo il significato dell’espressione Storia dell’Economia e le ragioni per cui lo studio di questa disciplina a livello universitario è oggi a rischio in Italia. L’espressione Storia dell’economia indica l’intreccio fra studio della storia delle idee e delle teorie economiche, studio delle coordinate temporali e spaziali e del contesto politico, istituzionale, e sociale nel quale quelle idee e quelle teoria hanno preso forma, studio delle donne e degli uomini che quelle idee e quelle teorie hanno formulato, studio della relazione tra quelle idee, quelle teorie e il mondo della politica economica. La Storia dell’economia comprende quindi quelle che comunemente si chiamano storia economica e storia del pensiero economico.

Nel nostro paese, come ricorda Barucci, che è stato tra i fondatori del Dottorato in Storia del pensiero economico all’università di Firenze, è esistita un’importante tradizione di studi e ricerche nel campo della storia dell’economia come testimonia anche un libro recentissimo, curato da Pierluigi Ciocca e Giangiacomo Nardozzi per i tipi della Treccani e dedicato al pensiero economico nell’Italia repubblicana. Questa tradizione e lo studio della Storia dell’economia è oggi, in Italia più che in altri paesi, fortemente marginalizzata e a rischio di estinzione.

Per comprendere come si è arrivati a questa situazione e può essere utile partire da una battuta semi-seria del grande economista statunitense Paul Samuelson (1915-2009). Scrive Samuelson in un saggio del 1987: Poco dopo il 1930 l’economia ha avuto una nuova vita. Sono scoppiate almeno quattro rivoluzioni: la rivoluzione della concorrenza monopolistica, la rivoluzione macroeconomica keynesiana, la rivoluzione della matematizzazione e la rivoluzione dell’inferenza econometrica. Gli studenti universitari hanno bisogno di almeno 4 ore di sonno a notte: questa è una costante universale. Quindi qualcosa doveva cambiare nel programma di studi di economia. Da qui la scelta di eliminare la storia del pensiero economico, e subito dopo le lingue straniere e gli insegnamenti di base di storia economica. (nostra traduzione)

La situazione descritta da Samuelson si è manifestata prima negli USA e poi negli altri paesi, in alcuni, come l’Italia, in maniera più intensa che in altri. Gradualmente, sotto la spinta dei cambiamenti identificati da Samuelson, l’economia è diventata un misto fra un gioco intellettuale per amanti dell’applicazione della matematica e della statistica alla realtà, una cassetta degli attrezzi progettata per risolvere problemi immediati, un passaggio obbligato da superare il più rapidamente possibile per chi si dedichi agli studi di finanza o di economia aziendale.

In tutti e tre i casi, la dimensione storica dell’economia ha perduto importanza se non come qualcosa da coltivare nel tempo libero per proprio interesse. In Italia, la trasformazione descritta da Samuelson si è manifestata a partire dagli anni novanta e oggi si può dire compiuta del tutto o quasi. I dottorati dedicati alla Storia dell’economia, a Firenze come a Macerata, sono scomparsi e pochi dottorati in economia (per esempio Roma3, Pisa e Siena) offrono ancora la possibilità di dedicarsi a una tesi in Storia dell’economia con tutti i rischi che questo comporta. La Storia dell’economia, e in particolare la Storia del pensiero economico, sta gradualmente scomparendo anche dai corsi di laurea o viene spinta fuori dal perimetro delle scienze economiche verso quello delle discipline umanistiche, a loro volta sempre più spesso concepite come ancillari rispetto alle discipline dell’ambito STEM. Tutto questo è profondamente sbagliato e avrà pesanti ripercussioni sulle prossime generazioni di economisti e sull’evoluzione stessa della disciplina economica, per diversi motivi.

L’economia non è una scienza come le altre, non è una scienza fisica come la meteorologia, è non una scienza affine alla medicina o alla psicologia; l’economia è una scienza dell’uomo nella società. Più di un secolo fa, l’economista inglese Alfred Marshall (1924-1924) definiva l’economia come lo studio dell’umanità nella normale attività della vita; esamina quella parte dell’azione individuale e sociale che è più strettamente connessa con il raggiungimento e l’uso dei requisiti materiali del benessere. Quindi è da un lato uno studio della ricchezza; e dall’altro, e più importante, una parte dello studio dell’uomo.

Questa definizione è stata soppiantata da quella di un altro importante economista inglese, Lionel Robbins (1898-1984), che all’inizio degli anni Trenta definì l’economia come la scienza che studia la condotta umana nel momento in cui, data una graduatoria di obiettivi, si devono operare delle scelte su mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi. La definizione di Robbins è alla base del processo descritto da Samuelson e della trasformazione dell’economia in un’astratta teoria della scelta che ben si presta ad essere trattata con metodi matematici sempre più raffinati, relegando in secondo piano la dimensione storica, politica e istituzionale dei fenomeni economici.

Se però si rimane legati all’idea dell’economia come una scienza dell’uomo e della società, ecco che allora la cultura economica non può prescindere da una conoscenza di quella società e delle sue istituzioni, e non può ignorare che le società umane cambiano nel tempo e nello spazio e con esse cambiano i rapporti di potere e di forza che legano le diverse componenti di quelle società umane, nell’intreccio fra potere e progresso di cui parla il recente libro dei premi Nobel Daron Acemoglu e Simon Johnson.

Eliminare la Storia dell’economia dai corsi di laurea in classe economica (L18, L33, LM56, LM77) e soprattutto dai dottorati, che formano le studiose e gli studiosi del futuro, non solo impoverisce gli studi economici odierni e futuri ma li priva di senso. Troppo spesso e da troppi anni si studia economia in modo acritico, confrontandosi modelli economici, più o meno complessi, di cui con difficoltà si capiscono il significato e gli scopi e verso i quali pochissimi provano un vero interesse. Venticinque anni di intensa attività didattica nell’università italiana a livello di laurea triennale, magistrale, master e dottorato mi confermano in questo giudizio. La stessa esperienza, acquisita in anni precedenti studiando Economia alla Sapienza di Roma e poi alla Bocconi e all’Istituto Universitario Europeo, mi ha reso consapevole dell’importanza di unire lo studio dell’economia e della sua storia e del grande valore che si può trarre da questa combinazione.

La maggior parte di quanti studiano economia oggi in Italia, e di quanti la insegneranno domani, poco o nulla sa del mercantilismo e di come di dazi e politiche di potenza si rifletta da almeno cinquecento anni e non da quando Trump è tornato alla Casa Bianca. Lo stesso vale per le origini storiche e politiche della teoria dei vantaggi comparati di Ricardo o per le di Milton Friedman in materia di inflazione, politica monetaria e banche centrali indipendenti, considerate quasi alla stregua di dogmi, così come per idee (colpevolmente) abbandonate come le idee di Marx sullo sfruttamento dei lavoratori, le idee di Keynes sull’utilità degli investimenti pubblici o sugli effetti economici dell’incertezza e le idee di Schumpeter in materia di innovazione e distruzione creatrice.

Si dirà che per capire i vantaggi comparati, il moltiplicatore keynesiano, gli effetti di un dazio, il legame fra prezzi e moneta, le ragioni della disuguaglianza, non serve conoscere il contesto nel quale questi concetti sono stati formulati la prima volta, né le ragioni di ordine politico e storico che hanno portato al loro successo. Non è così. Ignorare la dimensione storica dell’economia e l’intreccio delle idee, dei fatti, politici e storici, alla base dei suoi concetti principali porta a concepire il sistema economico come una realtà naturale, che esiste comunque a prescindere dall’uomo, un sistema di cui si possono prevedere gli andamenti e le dinamiche grazie a modelli statistici, proprio come si fa con il tempo atmosferico. Una visione meteorologica dell’economia e allo stesso tempo una visione profondamente conservatrice, che tratta i concetti di concorrenza, mercato, impresa, disoccupazione, disuguaglianza come dati di natura.

Chi coltiva lo studio e l’insegnamento della Storia dell’economia contrasta questa visione e s’impegna a tener viva una visione alternativa in cui concorrenza, mercato, impresa, occupazione, distribuzione, produzione, occupazione, disuguaglianza sono concepiti fin dall’inizio come fenomeni sociali, determinati storicamente attraverso l’interazione fra essere umani e istituzioni, legati da rapporti di potere e orientati da opinioni, credenze, giudizi. Perdere questa visione condanna l’economia a trasformarsi in una scienza applicata esclusivamente o quasi alla previsione, peraltro con risultati spesso deludenti, o in un’appendice della finanza.

Perché ciò non accada è essenziale che lo studio della Storia dell’economia continui a vivere a livello universitario come parte integrante ed essenziale del percorso di formazione di studentesse e studenti in economia e, soprattutto, a livello di dottorato, dove si formano i ricercatori e i docenti del futuro. Istituire nuovi dottorati in Storia dell’economia è un passo cruciale in questa direzione. Non farlo significa che tra vent’anni, quando la generazione dei cinquantenni sarà andata in pensione, il mestiere di storico dell’economia in Italia non esisterà più, favorendo magari una piccola ulteriore fuga di cervelli verso i paesi, penso per esempio alla Gran Bretagna o alla Francia, dove la Storia economica e la Storia del pensiero economico continueranno ad esistere. Anche per questo è importante che l’appello di Barucci venga ascoltato.