Potere delle imprese e trasformazione socio-ecologica: perché il progresso resta bloccato*
Come mostra l’ultimo vertice della COP, le speranze di realizzare un’azione efficace per il clima rischiano di svanire per un ostacolo familiare: il potere radicato delle élite aziendali. I negoziati volti a ridurre le emissioni vengono diluiti, ritardati o respinti, poiché i combustibili fossili e altri interessi costituiti esercitano la loro immensa capacità di influenza per preservare lo status quo. Le forze responsabili della crisi climatica continuano a guidare l’agenda globale, mettendo da parte le discussioni sul cambiamento trasformativo. Tutto ciò non è un caso: deriva da strutture di potere profondamente radicate nei sistemi economici e politici. La comprensione di queste dinamiche richiede un’esplorazione di come i complessi di potere – coalizioni di imprese ed élite – si siano evoluti e siano giunti a dominare l’economia.
Breve storia delle concentrazioni di potere. La spinta del capitalismo all’accumulazione infinita ha alimentato una spirale sempre più ampia di estrazione di risorse, mercificazione e reinvestimento in ulteriori cicli di estrazione e accumulazione. Questo processo, accelerando, rimodella sia la società che la natura. Le strutture di potere non sono semplicemente il prodotto di questi processi storici, ma li modellano attivamente.
Durante l’era coloniale-liberale dell’imperialismo del XIX secolo, una struttura di potere finanziario ha avuto il sopravvento. Un gruppo molto coeso di banche e finanzieri controllava il capitale globale, e al centro vi era la City di Londra, sostenuta dalla Marina britannica. Anche i principali Stati periferici erano soggetti a una rigorosa supervisione da parte degli investitori internazionali, attraverso meccanismi come l’Amministrazione del debito pubblico turco-ottomano e il Corollario di Roosevelt. Questi meccanismi imponevano il rimborso del debito dell’Impero Ottomano e delle nazioni dell’America Latina, garantendo che le richieste dei creditori avessero la priorità. L’imperialismo del libero scambio britannico terminò con l’inizio della Grande Depressione nel 1929.
La metà del XX secolo ha inaugurato l’era fordista, caratterizzata dalla produzione di massa, da sindacati forti e da mercati interni nel Nord globale. Ciò ha indebolito il blocco del potere finanziario globale. Contemporaneamente, i settori dei combustibili fossili e dell’allevamento-agroalimentare sono saliti alla ribalta. I combustibili fossili sono stati utilizzati per estrarre altri combustibili fossili e il capitale fossile ha intensificato il suo flusso materiale. I governi hanno rafforzato il dominio del capitale fossile con investimenti pubblici come le autostrade – la Ford a Detroit, la Fiat nell’Italia di Mussolini, la Volkswagen nella Germania di Hitler. Allo stesso tempo, il complesso zootecnico-agroalimentare si espandeva attraverso la trasformazione della natura in capitale, industrializzando l’agricoltura. Affidandosi a input petrolchimici come fertilizzanti e pesticidi sintetici, l’agricoltura è diventata una petro-agricoltura e il controllo dei parassiti è diventato sterminio chimico. La produttività è aumentata, ma anche la perdita di biodiversità, le emissioni di gas serra e lo sradicamento dei piccoli agricoltori.
Negli anni Settanta, le crepe nel sistema fordista hanno aperto la strada al neoliberismo, che ha rivitalizzato le strutture di potere finanziario con una nuova era di finanziarizzazione, favorendo al contempo l’affermarsi del nuovo complesso di potere digitale. La recente ascesa dei tecno-fascisti negli Stati Uniti è il culmine di questa tendenza. Un tempo al centro delle narrazioni liberali del “neoliberismo progressista”, le società digitali e figure come Elon Musk e Peter Thiel hanno rafforzato le alleanze antidemocratiche, minacciando la democrazia attraverso la disinformazione, la sorveglianza e il controllo sociale – ora evidente nella loro complicità nel consentire il genocidio messo in atto da Israele a Gaza.
Sotto il neoliberismo, per la prima volta, tutti e quattro i complessi di potere – finanziario, dei combustibili fossili, del bestiame, dell’agroalimentare e del digitale – hanno interagito, scatenando forze capaci di estrarre, come mai in precedenza, rendite, materiali e dati per accelerare l’accumulazione del capitale. L’interdipendenza di questi complessi ne amplifica il potere, creando un sistema non solo altamente estrattivo ma anche profondamente resistente al cambiamento.
Il complesso dell’energia fossile: Preservare lo status quo. Il complesso del potere fossile esemplifica come gli interessi radicati plasmino le politiche e blocchino il progresso. Negli Stati Uniti, ad esempio, 27 dei 39 lobbisti che nel 2023 operavano per la BP in precedenza avevano ricoperto posizioni governative. Le aziende produttrici di combustibili fossili spendono milioni per esercitare pressione sui governi e finanziare associazioni di categoria come l’Associazione internazionale dei produttori di petrolio e gas o FuelsEurope, che si oppongono alle politiche climatiche allineate agli accordi di Parigi. Queste associazioni spesso agiscono come “poliziotti cattivi”, prendendo posizioni estreme in modo che le singole aziende possano mantenere un’immagine più pulita.
Al di là del lobbismo palese, le compagnie di combustibili fossili influenzano il processo decisionale attraverso un accesso privilegiato ai politici. Dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, lo European Union’s Energy Platform Industry Advisory Group comprendeva le principali aziende di combustibili fossili, ma escludeva le organizzazioni di interesse pubblico. Questo gruppo, che opera protetto da una clausola di segretezza professionale, ha dato forma al piano RePowerEU e alle nuove iniziative di approvvigionamento di gas, classificando i combustibili fossili come vitali per la sicurezza nazionale. Questa strategia sfrutta timori legittimi per giustificare investimenti in infrastrutture ad alta intensità di carbonio, come i terminali di gas naturale liquefatto (GNL).
Il concetto di “lock-in” illustra il pericolo. Una volta che si investe in infrastrutture o tecnologie fossili, si creano dipendenze a lungo termine. Ad esempio, le attività di lobbying in Germania hanno permesso di approvare fino a 12 progetti di GNL, con 7 nuovi progetti successivamente proposti o in costruzione – ben più dei due raccomandati dalla Commissione Europea – che potrebbero legare il Paese al gas per decenni. Mentre esercitano pressioni per l’espansione delle infrastrutture GNL in Paesi come la Germania, le aziende fossili si sono contemporaneamente opposte alle politiche di transizione energetica e hanno promosso l’aumento delle esplorazioni di gas in Paesi come la Mauritania e il Senegal. Queste azioni vincolano di fatto ai combustibili fossili l’intera catena del valore, dalla produzione a monte al consumo a valle.
Lungi dall’essere misure reattive, questi sforzi modellano in modo proattivo le infrastrutture e le politiche per prolungare l’era dei combustibili fossili, vincolando intere regioni a un futuro ad alta intensità di carbonio. L’etichettatura del GNL come “verde” è un’altra indicazione di come il complesso del potere fossile manipola il discorso politico. Negli Stati Uniti, i dati emergenti mostrano che l’intensità totale delle emissioni del ciclo di vita delle esportazioni di GNL, dalla produzione al trasporto fino al consumo finale, ha un’impronta di gas serra del 33% superiore a quella del carbone. Nel complesso, l’orientamento strutturale verso gli interessi tecno-economici, spesso rafforzato dalla cooptazione della scienza e delle politiche climatiche, consente alle imprese produttrici di combustibili fossili di posizionarsi come consulenti chiave per la transizione energetica e di presentarsi come innovatori di tecnologie a emissioni negative per assorbire con profitto l’anidride carbonica che esse stesse emettono, anch’essa con profitto.
Rompere il potere consolidato. Per rispondere in modo efficace alle presenti crisi socio-ecologiche non ci si può basare su soluzioni tecnologiche o su mercati orientati al profitto. Il concetto di “capitalismo verde” è una contraddizione. Un vero cambiamento richiede di smantellare le strutture di potere consolidato e di adottare misure di democratizzazione economica e di pianificazione democratica. Queste sfide critiche sono affrontate in misura crescente con approcci promettenti. Tra questi, la ricerca pionieristica sui network influenti nel diffondere atteggiamenti di ostruzione al cambiamento climatico; incisivi che vanno oltre i miglioramenti dell’efficienza, potenzialmente socializzando gli investimenti e riducendo i profitti; la ricerca sulle strategie attuabili per la decrescita e la post-crescita; e gli sforzi instancabili di alcuni autori dell’IPCC per sfidare le dinamiche del potere consolidato. Finché la scienza del clima, i media e i leader politici non si confronteranno con questi problemi sistemici – e non abbandoneranno le loro fantasie tecno-utopiche – resteranno complici della perpetuazione proprio le strutture che portano al collasso socio-ecologico.
* Questo articolo è stato pubblicato originariamente in inglese su Social Europe il 3 febbraio 2025.