La Turchia al bivio
Da anni ormai la Turchia attraversa una fase storica estremamente complessa, in cui la società turca ha dimostrato malgrado tutto una notevole capacità di affrontare eventi traumatici, di superare profonde crisi politiche e di adattarsi a circostanze critiche da un punto di vista economico. L’arresto del sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu – leader carismatico dell’opposizione e sicuro candidato presidenziale per il 2028 – rischia tuttavia di rappresentare un test senza precedenti non solo per le modeste credenziali democratiche del regime, ma anche per la tenuta sociale del paese.
La repressione giudiziaria contro le opposizioni non è una novità assoluta in Turchia, ma per la prima volta colpisce direttamente il principale partito di opposizione, il CHP, per altro proprio nel suo momento di massimo consenso. Nelle elezioni amministrative del 2024 il CHP ha superato il partito di governo AKP – diventando il primo partito nel paese – mentre i più recenti sondaggi prevedono una larga affermazione di İmamoğlu nel caso si candidasse alla presidenza della repubblica. Per la prima volta da quando Erdoğan ha preso il potere nel 2002, l’attuale opposizione sembra godere di un sostengo maggioritario nell’opinione pubblica. Le elezioni primarie del CHP – previste per il 23 marzo con İmamoğlu sicuro vincitore – avrebbero dato ufficialità alla sua candidatura presidenziale.
Il 18 marzo l’Università di Istanbul ha però revocato la laurea di İmamoğlu a causa di presunte irregolarità formali risalenti al 1990. Dal momento che la legge turca richiede la laurea come requisito per l’elezione alla presidenza della repubblica, ciò renderebbe ineleggibile İmamoğlu. La revoca del titolo di studio ha scatenato forti polemiche, e la tempistica ha alimentato il sospetto che il provvedimento sia stato politicamente motivato e ispirato da pressioni governative. Il clamore suscitato dalla revoca della laurea è stato solo il primo passo verso sviluppi ben più clamorosi nelle ore immediatamente successive. All’alba del 19 marzo la polizia ha prelevato İmamoğlu dalla sua residenza di Beylikdüzü: è stato lo stesso sindaco a darne la notizia attraverso un video postato sui social network. Insieme a İmamoğlu sono state arrestate un centinaio di persone, tra cui funzionari municipali, i sindaci distrettuali di Şişli e Beylikdüzü, giornalisti e imprenditori. Le accuse includono frodi negli appalti, appropriazione indebita e perfino collusione con organizzazioni criminali e terroristiche. Il 23 marzo, un tribunale ha convalidato la detenzione di İmamoğlu per quanto riguarda le accuse di corruzione – lasciando invece cadere le accuse di terrorismo – sollevandolo dunque dalla carica di sindaco.
Difficile valutare la fondatezza delle accuse, dal momento che in data 28 marzo non sono stati ancora resi pubblici gli atti d’accusa. Bisogna inoltre tenere conto del fatto che in casi come questo la magistratura turca fa abitualmente largo utilizzo di “testimoni segreti” (gizli tanık) la cui identità è conosciuta solo agli inquirenti, una prassi controversa per la mancanza di trasparenza che questo comporta. Esponenti dell’opposizione hanno sostenuto in questi giorni che l’impianto accusatorio è molto debole, mentre i media filo-governativi hanno diffuso la notizia che i testimoni chiave sarebbero membri dello stesso CHP. Nulla di tutto questo ha finora trovato conferma ufficiale.
Sin dalle ore immediatamente successive all’arresto di İmamoğlu il paese è stato scosso da un’ondata di proteste senza precedenti, almeno dai tempi delle rivolte di Gezi Parkı nel 2013. Il centro nevralgico della protesta è stato Saraçhane, il quartiere del distretto di Fatih famoso per l’Acquedotto di Velente e sede degli uffici centrali della municipalità metropolitana di Istanbul. La partecipazione alle manifestazioni è stata massiccia: nella sola Notte della Democrazia organizzata la sera del 21 marzo dal CHP, circa 300.000 persone si sono radunate nell’area di Saraçhane. Nel corso della settimana le proteste si sono diffuse in tutto il paese, con manifestazioni di massa organizzate in almeno 55 delle 81 province della Turchia. Le autorità hanno emanato un divieto di assembramento, che tuttavia è stato totalmente disatteso. Anche il rallentamento della rete internet e il tentativo di bloccare i social media hanno avuto un impatto molto limitato nell’ostacolare le manifestazioni. Notevole è stata la partecipazione giovanile, con un’adesione particolarmente forte da parte degli studenti universitari. Benché le manifestazioni siano state per lo più pacifiche e ordinate, si sono segnalati episodi sporadici di tensioni e violenze a cui i media filo-governativi hanno dato grande rilievo. Il Ministero dell’Interno ha riportato 1.133 arresti tra il 19 e il 24 marzo, con 123 agenti feriti.
Il 23 marzo, in concomitanza con la detenzione formale di İmamoğlu, il CHP ha comunque tenuto regolarmente le primarie, con il sindaco di Istanbul come unico candidato. In un clima di forte ostilità – le autorità hanno tentato in ogni modo di ostacolare l’evento chiudendo strade e limitando l’accesso – l’affluenza ha raggiunto i 15 milioni di votanti, di cui solo un milione e mezzo iscritti al partito. Si è trattata indubbiamente di una prova di forza clamorosa da parte del CHP e dello stesso İmamoğlu: un quarto degli elettori è andato a votare alle elezioni primarie organizzate da un solo partito e con un solo candidato. Nonostante l’arresto – e in parte proprio in virtù di questo – İmamoğlu è con ogni evidenza la figura politica attualmente più popolare in Turchia.
Il 25 marzo, il segretario del CHP Özgür Özel ha annunciato un piano di boicottaggio per colpire le aziende vicine all’AKP e i media che ignorano le proteste. Durante un discorso a Saraçhane, ha invitato i sostenitori del partito e dell’opposizione a boicottare i marchi contenuti in una “lista nera” di aziende legate con il partito di governo: molti appartengono ai conglomerati Demirören e Turkuvaz, noti per il sostegno a Erdoğan. Özel ha esortato a evitare questi marchi, precisando che il bersaglio del boicottaggio non sono i lavoratori di queste aziende, ma i proprietari che «proteggono il regime». Özel ha minacciato di espandere il boicottaggio se i media non cambieranno linea, puntando su una pressione economica prolungata.
Erdoğan, in un discorso del 24 marzo, ha definito le proteste «terrorismo di strada» e il boicottaggio un’azione di «sabotaggio economico», promettendo azioni legali contro chi «mina la stabilità» del paese. Il 26 marzo, il presidente turco ha accusato il CHP di «provocare caos» e ha respinto le critiche al sistema giudiziario, insistendo sulla sua indipendenza. Il portavoce dell’AKP, Ömer Çelik, ha bollato il boicottaggio come «bullismo politico», sostenendo che il CHP dovrebbe semmai affrontare le accuse di corruzione al suo interno. Il Ministro della Giustizia Yılmaz Tunç ha definito il piano di boicottaggio come un pericolo per l’economia, citando il crollo della Borsa di Istanbul (-3,2% il 26 marzo) e della valuta nazionale (-14,5% dal 19 marzo). Va tuttavia sottolineato come la crisi finanziaria sia esplosa nelle ore immediatamente successive all’arresto di İmamoğlu, come conseguenza della caduta della fiducia degli investitori da esso provocata, ben prima quindi dell’inizio delle proteste di massa e delle azioni di boicottaggio.
Il CHP ha replicato con fermezza: il segretario Özel ha descritto il boicottaggio come «l’arma non violenta più efficace» contro un governo che «ignora la volontà popolare», annunciando un congresso straordinario il 6 aprile per consolidare il partito e prevenirne un possibile commissariamento. Si tratta di un rischio emerso da un’indagine sulla possibile irregolarità del congresso del 2023. Il segretario ha anche chiesto che il processo a İmamoğlu sia trasmesso sulla rete televisiva nazionale TRT e si è detto disponibile a un dibattito televisivo con Erdoğan. Gli altri partiti di opposizione, tra cui il filo-curdo DEM, hanno espresso solidarietà a İmamoğlu e al CHP, seppure con cautela, per evitare accuse di collusione e non danneggiare il processo di pace avviato con il piano di disarmo del PKK.
Il 26 marzo il consiglio comunale di Istanbul (che conta 312 membri, di cui 176 del CHP) ha eletto Nuri Aslan, vicesindaco e alleato di İmamoğlu, come sindaco pro tempore con 189 voti a favore e 112 contrari. Aslan ha promesso di «garantire continuità» fino al rilascio di İmamoğlu, o a nuove elezioni. Questa mossa dovrebbe impedire il commissariamento della municipalità, ma il Ministero dell’Interno ha già impugnato la decisione.
Nell’immediato l’arresto di İmamoğlu ha rafforzato ulteriormente la sua immagine di leader carismatico dell’opposizione e alternativa a Erdoğan, come dimostrano il risultato delle primarie e la gigantesca mobilitazione popolare in suo favore. Il consenso attorno alla sua persona è ora altissimo, paragonabile per certi versi a quello di Erdoğan nei primi anni del suo ormai pluridecennale governo. Bisogna però valutare il peso che l’eclissi almeno momentanea di İmamoğlu dalla politica attiva avrà sulla sua immagine nel medio-lungo periodo. Le proteste hanno dimostrato una capacità di organizzazione notevolissima e per alcuni aspetti inedita da parte dell’opposizione. Il paragone più naturale è quello con le proteste di Gezi Parkı. Solo che oggi le proteste sono organizzate e controllate dall’alto con un ruolo centrale da parte di un partito di opposizione forte e popolare, che è proprio ciò che mancava nel 2013. Resta da vedere per quanto potranno prolungarsi, anche tenendo in considerazione il fatto che la repressione delle manifestazioni – finora piuttosto blanda per gli standard turchi – potrebbe intensificarsi se lo stallo politico si prolungasse. Il boicottaggio proposto da Özel mira a mantenere la pressione sull’esecutivo e il sistema economico che lo sostiene, ma la sua efficacia è incerta e potrebbe rappresentare un’arma a doppio taglio per quanto concerne il consenso della classi lavoratrici.
Erdoğan potrebbe sfruttare la crisi per giustificare ulteriori colpi di mano, mentre il CHP deve trasformare la mobilitazione in una strategia coerente. L’elezione di Aslan a sindaco pro tempore e la convocazione di un nuovo congresso nazionale del CHP offrono una soluzione temporanea, ma il futuro politico dipende dalla capacità dell’opposizione di resistere alla pressione governativa sul medio-lungo periodo. Rimane sullo sfondo l’ipotesi di elezioni anticipate, che in questa situazione incandescente rappresenterebbero un salto nel buio per tutti.
In simili circostanze è difficile prevedere gli sviluppi della crisi nei prossimi mesi. La società turca vive oggi una fase storica molto diversa da quelle delle proteste del 2013 o del tentato golpe del 2016, quando il paese malgrado tutto viveva ancora una fase espansiva e il consenso verso Erdoğan era maggioritario. Dopo un ventennio di crescita economica costante, oggi la Turchia attraversa invece una delle crisi economiche più gravi della sua storia moderna, che sta distruggendo il potere di acquisto dei lavoratori e della classe media. La Generazione Z sta emergendo con un proprio orizzonte culturale estremamente distante dai valori conservatori propugnati dal regime, mentre i recenti sviluppi regionali contribuiscono a generare forti tensioni etniche e confessionali. I notevoli successi di Erdoğan in politica estera, che per alcuni anni hanno contribuito a mantenere il consenso interno, sono oggi accolti con sempre maggiore indifferenza da una popolazione che non vede alcun beneficio per le proprie vite.
Con un governo sempre più impopolare e un’opposizione galvanizzata da un ricambio generazionale che vede in İmamoğlu la punta di diamante, questa volta un eventuale tentativo del governo di intensificare la repressione potrebbe causare una reazione difficile da arginare – perfino oltre le intenzioni del CHP, che beneficia del sentimento popolare antigovernativo, ma ne ha un controllo limitato – e avere esiti imprevedibili e pericolosi per la tenuta del sistema politico, economico e sociale.