La questione salariale non è solo questione di salari*
La pandemia provocata dal Covid 19 e poi la forte ripresa dell’inflazione nel 2022 hanno fatto (ri)esplodere la questione salariale in Italia. Tema che, in realtà, precede di molto la fiammata inflazionistica e che va al di là dei salari in sé e per sé. Infatti, dal 1991 al 2023 si è registrata una discesa del 3,4 per cento dei redditi da lavoro annuali a parità di potere d’acquisto contro una media di circa il 30 per cento di aumento nei paesi dell’Ocse. Un divario enorme, dietro al quale ci sono le fragilità del nostro sistema produttivo, la terziarizzazione senza qualità dell’economia, il lavoro non standard usato come variabile di aggiustamento e le occasioni mancate, per citare Michele Salvati, di fronte alle trasformazioni tecnologiche e ai rapidi mutamenti dei mercati globali. La questione salariale, dunque, va oltre il salario.
La globalizzazione ci ha colto impreparati. Per fare i conti con i nuovi concorrenti internazionali abbiamo dapprima (e finché abbiamo potuto) svalutato la moneta e poi il lavoro. Una parte piuttosto larga delle imprese italiane ha provato a sopravvivere ai margini, abbassando i costi e sfruttando le forme contrattuali non standard. Il salario non è una variabile indipendente, ma la mancanza di una sostanziale pressione salariale non ha certamente aiutato a stimolare investimenti in innovazione, formazione e riqualificazione del capitale umano. Il Pil è cresciuto troppo poco: nel 1970 il Pil pro capite – dati Ocse – era di 23 mila dollari a parità di potere d’acquisto, ma a metà degli anni Novanta aveva toccato quasi i 45 mila dollari. L’Italia era sostanzialmente in linea con gli altri paesi europei (45 mila dollari in Germania e Stati Uniti, 40 mila in Francia e 33 mila in Spagna). Poi i trend sono cambiati: nel 2023 il Pil pro capite italiano è arrivato a 52 mila dollari annui, mentre quello francese è salito a 54 mila, quello tedesco a 63 mila, quello statunitense a 75 mila. La Spagna che partiva da molto dietro, ha toccato i 47 mila euro l’anno. Tutti sono cresciuti più dell’Italia.
Dietro la frenata del Pil c’è il blocco totale della produttività a partire dalla metà degli anni Novanta. Un aspetto decisivo da mettere in relazione con tutto ciò che si è verificato in quegli anni. Per esempio, il nuovo modello contrattuale (quello disegnato nel “protocollo Ciampi” del 1993) scommetteva proprio sulla distribuzione dei guadagni di produttività attraverso l’estensione della contrattazione aziendale e/o territoriale per fare crescere le retribuzioni, affidando al contratto nazionale il compito di tutelare il potere d’acquisto delle retribuzioni. Ma senza crescita della produttività sono insostenibili incrementi salariali reali: negli anni 2000 anche i limitati aumenti salariali che si sono registrati erano comunque in eccesso rispetto alla crescita della produttività con la conseguenza di far perdere competitività al paese. E così la contrattazione nazionale diventa il fortino in cui si asserragliano le confederazioni sindacali e le organizzazioni datoriali. Per il resto non più del 20 per cento delle aziende con almeno 20 addetti, essenzialmente nelle regioni settentrionali, pratica la contrattazione di secondo livello collegata ai risultati aziendali. Nella storia della Repubblica – con l’importante eccezione della legge, e successive varie modifiche, sulla scala mobile – il potere legislativo ha scelto sostanzialmente di non invadere il terreno della contrattazione. Non in tutti i paesi europei è così. E il dibattito intorno alla proposta di introdurre in Italia un salario minimo legale si è sviluppato soprattutto su un possibile “conflitto di competenza” tra attori politici e soggetti sociali senza, però, avanzare molto sulla sostanza.
Va aggiunto, tuttavia, che la dinamica della produttività non è stata (e non è) identica in tutti i settori. Le imprese manifatturiere di grandi e medie dimensioni si muovono ancor oggi in linea con i concorrenti francesi, tedeschi o britannici. Questo spiega le buone performance sul fronte dell’export a cui contribuiscono anche le aziende del cosiddetto “quarto” (e forse ormai “quinto” per via della forte spinta alla internazionalizzazione) capitalismo. Il punto dolente è rappresentato dalle aziende di piccole dimensioni e, in particolare, dal settore dei servizi (l’industria ormai impiega il 20% o poco meno degli occupati). Qui si è registrato il blocco della produttività che ha trascinato il resto dell’economia. È stato calcolato che nei primi quindici anni di questo secolo il differenziale di produttività tra le piccole e grandi imprese è cresciuto dal 55 al 65 per cento.
Dunque, insieme alla struttura produttiva, la dimensione delle aziende è un fattore determinante della questione salariale italiana. Il 95 per cento delle imprese italiane ha meno di 50 dipendenti, una percentuale superiore rispetto a Francia, Germania, Spagna e Regno Unito. In più, in queste piccole, o micro, imprese si concentra una quantità superiore di forza lavoro rispetto ai nostri vicini. Anche questo spiega il ritardo in formazione e competenze dei lavoratori italiani. I laureati italiani sono poco più del 25 per cento della popolazione contro una percentuale superiore al 38 nelle media europea. E comunque spesso non trovano il lavoro che cercano. E ancora: il numero dei brevetti italiani è quasi la metà di quello francese e pari a un quinto di quello tedesco. Gli ultimi dati registrano un calo del 4,5 per cento nel 2024 rispetto all’anno precedente delle richieste italiane di registrazione dei brevetti. L’indagine Ocse sulle competenze degli adulti ci dice che un adulto italiano su quattro non ha competenze di base nell’elaborazione delle informazioni. L’invecchiamento della popolazione (si calcola che nel 2050 la quota di persone over 80 rappresenterà oltre il 13 per cento della popolazione) è una causa ulteriore delle difficoltà del sistema produttivo italiano a reggere la competizione dettata dall’innovazione tecnologica.
Con le riforme del mercato del lavoro la crescente flessibilizzazione dei nuovi modelli produttivi si è riflessa nella legge (il lavoro non standard non è una creazione del legislatore ma una caratteristica di tutte le economie moderne). Ma quelle riforme le abbiamo realizzate a metà, lasciandole incompiute. Pensiamo solo agli insufficienti interventi sul lato della rete di protezione sociale e delle politiche attive del lavoro, mentre proliferavano le diverse forme contrattuali non standard ed esplodevano gli scontri politici sulla correzione/abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. I contratti a termine, quelli part time (perlopiù involontario, che ancora oggi rappresenta oltre il 50 per cento del totale del part time) e via dicendo sono serviti alle imprese meno strutturate, in stragrande maggioranza dei servizi, per vivacchiare. E mentre la narrazione esaltava la forza propulsiva dell’edilizia e del turismo con qualche nostalgia anche per il vecchio slogan “piccolo è bello” i salari stagnavano (non poteva essere altrimenti), in particolare per i lavoratori con contratti non standard che perdevano terreno rispetto agli altri.
Secondo gli ultimi dati disponibili presso l’Istat, nel 2022 i dipendenti con contratto a tempo determinato avevano una retribuzione media oraria più bassa del 24,6 per cento di quelli con contratto a tempo indeterminato. Nel part time, che interessa soprattutto le donne, il divario, rispetto al full time, sale al 30 per cento. Certo, in questi dati c’è un effetto composizione dal momento che le figure professionali più forti hanno un contratto a tempo indeterminato. Tuttavia, la questione salariale riguarda anche chi sta al vertice della piramide: in Italia esistono poche posizioni dirigenziali e sono pagate meno che altrove. Nel 2021, solo il 9 per cento dei dipendenti superava i 40 mila euro lordi di retribuzione annua.
Coloro che guadagnano di più sono anche coloro che, pagando più tasse, tengono in piedi il nostro welfare state. Tre quarti delle entrate Irpef provengono da appena un quarto dei contribuenti, quelli che dichiarano più di 29 mila euro l’anno. Questo è il nostro sistema fiscale, per il quale il reddito da lavoro dipendente va tassato con aliquote progressive (ex articolo 53 della Costituzione) e il resto in maniera assai diversa: il reddito di un affitto è tassato con un’aliquota fissa del 21 per cento; sugli investimenti finanziari grava un prelievo che va dal 12,6 per cento al 26 per cento; la prima casa è esentasse. I lavoratori autonomi versano la flat tax del 15 per cento fino a un fatturato di 85 mila euro lordi l’anno. Invece per i lavoratori dipendenti scatta l’aliquota marginale del 43 per cento una volta superati i 50 mila euro annui (e alle aliquote Irpef vanno aggiunte le addizionali comunali e regionali). E con la ripresa dell’inflazione ha ricominciato a operare il fiscal drag quel meccanismo infernale che drena risorse all’aumentare del salario nominale – per effetto dell’applicazione di un’aliquota marginale superiore al maggior reddito nominale – riducendo il potere d’acquisto.
La questione salariale è dunque una questione nazionale, quasi un’emergenza nazionale. Nel libro proviamo a ragionare su vari interventi per promuovere la crescita dimensionale delle imprese, combattere il lavoro nero e grigio, aumentare le competenze dei lavoratori e dei manager, riordinare il sistema fiscale e dei trasferimenti e sostenere (e complementare dove necessario) la contrattazione. Vaste programme, certo. Ma non si può nemmeno pensare che si possa affrontare una stagnazione trentennale con un paio di decreti.
* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente personali