Il modello scandinavo tra idealizzazione e realtà
Da decenni il modello scandinavo di welfare state è considerato uno dei più efficaci e generosi. Sin dal lavoro di Esping-Andersen (1990), il modello social democratico incarnato dal welfare scandinavo gode di un notevole apprezzamento ma poggerebbe su alcuni pilastri, che esamineremo tra breve, considerati difficilmente esportabili al di fuori del Nord Europa. Un recente contributo di Mogstad, Salvanes e Torsvik (2025) – del quale in questa nota si sintetizzano i principali contenuti – mette però in discussione questa narrazione, sostenendo che il modello scandinavo è meno eccezionale, e più replicabile, di quanto comunemente si creda.
I quattro pilastri. Descriviamo in primo luogo sinteticamente i quattro pilastri su cui si regge il welfare statescandinavo.
Il primo, ispirato al principio dell’uguaglianza delle opportunità, è l’universalità delle prestazioni in materia di istruzione, salute e sostegno alle famiglie. Su tale principio si fonda un’articolata rete di politiche che accompagnano i cittadini lungo l’intero arco della vita: dai congedi parentali, all’accesso ai servizi sanitari, fino all’istruzione gratuita.
Il secondo pilastro è la tassazione elevata – nel 2022, la pressione fiscale nei paesi scandinavi superava ovunque il 40%, contro una media OCSE del 34% (OECD, 2023) – e progressiva.
Il terzo è l’elevata spesa in materia di assicurazioni sociali per contrastare la perdita di reddito associata a disoccupazione, invalidità o malattia. In media, tale spesa è nell’ordine del 4% del PIL, circa il doppio della media OCSE.
Il quarto pilastro è la contrattazione collettiva. Nonostante un calo della sindacalizzazione negli ultimi quarant’anni, il livello di copertura dei contratti collettivi nei paesi scandinavi è rimasto stabile (Bhuller et al., 2022). Questo risultato, che indica che la copertura contrattuale eccede l’effettivo numero di lavoratori aderenti ai sindacati, è reso possibile da un sistema contrattuale articolato su due livelli: uno settoriale e uno aziendale.
Queste peculiarità del modello scandinavo sono ben note. Ciò che non è invece chiaro, con certezza, è quale pilastro sia maggiormente responsabile della (relativamente) bassa disuguaglianza dei redditi osservata nei paesi scandinavi.
Molti autori hanno cercato la risposta nelle generose politiche a sostegno dell’accumulazione di capitale umano o a sostegno delle famiglie, spesso considerati efficaci strumenti redistributivi. Il lavoro di Mogstad e coautori, al contrario, invita a riflettere su un elemento spesso colpevolmente sottovalutato: il ruolo del mercato del lavoro e, in particolare, della contrattazione collettiva.
L’eccezionalità dei paesi scandinavi è spesso ricondotta alla combinazione tra redditi pro-capite elevati e livelli di disuguaglianza contenuti. Questa condizione viene comunemente attribuita al sistema fiscale e di trasferimenti, che mitigherebbe le disuguaglianze presenti nella distribuzione dei redditi da lavoro. Tuttavia, Mogstad e coautori sostengono che da un’analisi più approfondita emerge che è la struttura stessa del mercato del lavoro a svolgere un ruolo altrettanto, se non più, rilevante nel determinare tali esiti.
In generale, i paesi scandinavi si distinguono per gli elevati tassi di partecipazione e di occupazione ed anche per una relativa stabilità nelle ore lavorate. In particolare, considerando i soli salari orari, i livelli di disuguaglianza sono inferiori a quelli registrati nella maggior parte delle altre economie avanzate.
Appurato che l’azione redistributiva del sistema di tasse e trasferimenti riduce in misura modesta la disuguaglianza nei redditi, un ruolo centrale è, dunque, svolto a livello pre-distributivo dai salari e dalle ore lavorate.
Nei paesi nordici, la minore disuguaglianza nei redditi da lavoro è riconducibile a tre elementi principali: una distribuzione salariale compressa; una minore dispersione delle ore lavorate; una debole correlazione tra ore lavorate e retribuzione oraria. Tuttavia, è la compressione della distribuzione salariale a incidere in misura quantitativamente maggiore.
Un recente lavoro di Bonhomme et al. (2023) analizzando le differenze nelle distribuzioni salariali in svariati paesi ha evidenziato un puzzle interessante: controllando per le caratteristiche di imprese e settori, la dispersione salariale è molto ridotta nei paesi scandinavi in comparazione a USA e UK.
Questi risultati ci riconducono alla questione centrale, ora formulabile in termini più chiari: cosa spiega il grande divario nei livelli di disuguaglianza salariale tra i paesi nordici e quelli anglosassoni, se si considerano caratteristiche strutturali ampiamente comparabili? In quale misura il modello di welfare scandinavo può essere davvero considerato eccezionale e, soprattutto, quanto è replicabile altrove?
L’architettura dell’equità scandinava. L’analisi indica, quindi, che la maggiore uguaglianza nei redditi dei paesi scandinavi è primariamente dovuta alla compressione dei salari orari. Tuttavia, la letteratura non è concorde sul meccanismo di trasmissione.
Una prima ipotesi attribuisce la ridotta dispersione dei salari orari al modesto skill premium nei mercati del lavoro nordici. Considerando l’istruzione come una proxy delle skill, nonostante una distribuzione delle competenze simile a quella di USA e UK, in quest’ultimi lo skill premium risulta circa doppio.
Una seconda ipotesi sottolinea il ruolo dei servizi complementari all’attività lavorativa, che stimolano la partecipazione alla forza lavoro e contribuiscono a un maggiore livellamento salariale. Kleven (2014) evidenzia come, nonostante l’elevata tassazione del reddito (che dovrebbe scoraggiare l’offerta di lavoro), tali servizi consentano di mantenere alti i tassi di partecipazione.
La terza ipotesi, complementare alle precedenti, mette a sistema il tutto. L’elevato livello di uguaglianza osservato nei paesi scandinavi dipenderebbe non solo dal basso skill premium e dai servizi pubblici complementari al salario, ma, in modo cruciale, anche dalla contrattazione collettiva.
La vera eccezionalità scandinava risiederebbe, allora, nella capacità delle parti sociali di garantire una più equa distribuzione salariale. Il sistema di fissazione dei salari opera su due piani: in ogni settore viene definito a livello centralizzato un salario di base q; successivamente si negozia una componente d a livello locale, dando luogo a un salario w = q + d.
Figura 1: Produttività, salari minimi e wage drift
Note: Distribuzione della produttività del lavoro, del salario minimo settoriale e del wage drift all’interno (Panel A) e tra (Panel B) le industrie in Norvegia. I valori sono espressi in corone norvegesi. Fonte: Bhuller et al. (2022).
La Figura 1 mostra la dinamica salariale e della produttività in Norvegia, con i lavoratori ordinati da sinistra a destra secondo la produttività (decrescente) dell’impresa di appartenenza.
Nel Panel A si osserva che all’interno dello stesso settore il salario di base resta pressoché costante lungo l’intera distribuzione, mentre la componente aziendale aggiuntiva – il cosiddetto wage drift (d) – segue l’andamento della produttività. Ragionevolmente, imprese più produttive corrisponderanno salari più alti rispetto a quelle meno produttive.
Il Panel B, che si concentra sul livello aggregato mostrando le differenze medie fra settori, segnala che le distanze relativamente contenute nei salari minimi tra settori a diversa produttività possono essere interpretate come evidenza di un forte coordinamento orizzontale tra settori nel sistema di contrattazione collettiva norvegese. Questa evidenza è coerente con un assetto che prevede un salario di base più alto nei settori dove il wage drift medio è più modesto.
Un’ultima domanda. E’ possibile replicare il modello scandinavo? La risposta a questa domanda non è facile e nella letteratura possiamo trovare argomenti che spingono in opposte direzioni, Mogstad e coautori citano anzitutto Acemoglu et al. (2017) in cui si avanza un argomento che porta a rispondere negativamente alla nostra domanda. Infatti, la tesi è che adottare il modello scandinavo con bassa disuguaglianza nei redditi di mercato ed in particolare del lavoro significa indebolire la spinta alle innovazioni e dipendere dagli spillover della tecnologia innovativa realizzata dai paesi più liberali e con più disuguaglianza. Data questa ipotesi, il passaggio da un modello liberale a un modello scandinavo sarebbe ostacolato dalla ipotizzata perdita di dinamismo innovativo che si tradurrebbe, almeno nel breve periodo, in minore crescita. Se si ritenesse che non occorre necessariamente un’elevata disuguaglianza per avere investimenti che sostengono la crescita questo impedimento all’adozione del modello scandinavo cadrebbe. Ed è sostanzialmente questa l’idea contenuta nel lavoro, non recente, di Agell e Kjell, 1993 che è il secondo a essere citato da Mogstad e coautori. L’idea di fondo è che la compressione della disuguaglianza salariale possa stimolare produttività e crescita, incentivando l’espansione di imprese più efficienti e l’ammodernamento di quelle stagnanti. Le esternalità positive generate dal ricollocamento dei lavoratori nei settori più produttivi dell’economia sono il fondamento di questa teoria. Infatti, politiche volte alla compressione dei salari rappresentano uno strumento efficace per guidare tale transizione. In questo contesto, si innescherebbe un circolo virtuoso: avere salari compressi stimola le imprese più produttive ad espandersi e quelle meno efficienti ad uscire dal mercato, favorendo la riallocazione di risorse nei settori più efficienti. Quindi è possibile trasformare un’economia di mercato liberale in una coordinata senza danni per la crescita.
La conclusione principale che si può trarre è che l’uguaglianza tanto invidiata ai paesi scandinavi appare in larga parte dovuta al meccanismo di fissazione dei salari. La limitata disparità salariale, che riflette il modesto skill premium pagato nel mercato del lavoro, rappresenta una spiegazione più convincente rispetto alle speculazioni in merito a generosi sussidi, alta tassazione e livellamento del capitale umano, fattori che pure incidono ma in modo considerevolmente minore.
Rimane tuttavia aperto il dibattito sull’effettiva applicabilità di questo modello in altri contesti. La teoria economica non è concorde sulla fattibilità di un cambiamento radicale e gli studi empirici a supporto dell’una o dell’altra visione sono difficili da condurre. Quel che è certo è che la straordinarietà nordica potrebbe non essere del tutto irraggiungibile.