Del lavoro e dell’etica del lavoro
Elisabeth Anderson è oggi una delle voci più ascoltate nell’analisi politico-filosofica dell’uguaglianza, di cui ha elaborato una visione relazionale secondo cui bisogna considerare non solo la distribuzione di reddito e ricchezza ma anche le gerarchie di potere, status, stima che strutturano la società.
Le relazioni sociali saranno egualitarie se e solo se i soggetti potranno giustificare il proprio comportamento sulla base di principi scaturiti dalla consultazione e il riconoscimento reciproci e se verranno eliminate le barriere istituzionali, economiche e sociali che impediscono la piena realizzazione del diritto di tutti a partecipare alla vita pubblica. Questo modello è definito dalla pensatrice americana di “uguaglianza democratica”, un ideale che deve governare non solo le istituzioni politiche ma l’insieme dei modi della cooperazione sociale.
Uno dei tratti distintivi della fisionomia intellettuale di Anderson è il pragmatismo-non casualmente ha scelto di intitolare a John Dewey la cattedra all’università del Michigan. Le sue indagini non restano dunque chiuse nella teoria ideale, per usare un termine rawlsiano, ossia nella derivazione a partire da principi primi di giustizia dei lineamenti della società astrattamente ottima ma vengono articolate in relazione ai problemi che emergono in concreto dalle dinamiche storico-sociali. Ciò rende la sua riflessione di immediato interesse per gli economisti, un invito ai quali ad allargare la propria visuale normativa, ispirandosi al passato classico della propria disciplina da Smith a Marx, è esplicitamente rivolto in Hijacked, How Neoliberalism Turned the Work Ethic Against Workers and How Workers Can Take It Back (2023).
Nel libro Anderson offre una dettagliata ricostruzione dal diciassettesimo secolo a oggi dell’influenza dell’etica calvinista del lavoro, secondo cui la costante operosità è segno di fede ossia di grazia. Max Weber, come noto, considera tale etica come intrinsecamente contraria agli interessi dei proletari, da essa ammaestrati a vedere la salvezza nella fatica e consegnati così allo sfruttamento capitalistico. La tesi di Anderson è invece che l’etica del lavoro abbia sempre avuto due facce, una conservatrice e una progressiva. La responsabilità per ciascuno di usare al meglio le capacità donategli da Dio che quest’etica afferma implica il riconoscimento della dignità di ogni lavoro e di chi lo svolge. Offre, dunque, un messaggio potenzialmente egualitario.
Secondo Anderson, il progetto neoliberale di cui oggi sono esplose le contraddizioni aveva sequestrato, da qui il titolo del libro, l’etica del lavoro, imponendone la versione conservatrice, mentre la versione progressiva aveva ispirato il progetto socialdemocratico interrotto negli anni 80 dalla rivoluzione reaganiana/thatcheriana.
La biforcazione definitiva dell’etica del lavoro nelle due versioni avviene alla fine del XVIII secolo. La prima celebra la capacità di iniziativa e oculatezza dei ricchi e vede nella povertà il frutto della pigrizia e dell’imprevidenza dei poveri. Campione di questa versione e’ nel XVIII secolo Thomas Malthus, secondo cui le Poor Laws–l’Inghilterra è il primo paese in cui aiutare i poveri diventa compito dello Stato– non facevano altro che ingrossare una plebe di parassiti. Altrettanto inclemente la posizione di Jeremy Bentham, che avendo sostituito il fine della massimizzazione dell’utilità a quelli della religione cristiana, pensa il Panopticon non solo per carceri e ospedali, come sappiamo da Michel Foucault, ma anche per le Poor Houses dove obbligare i poveri a lavorare per sopravvivere, sottraendoli al vizio cui sono per natura portati. Anderson sente l’eco di questa epistemologia del sospetto contro i poveri nelle riforme clintoniane del welfare in workfare, e ovviamente potremmo ricordare le polemiche nostrane intorno al reddito di cittadinanza.
L’etica del lavoro progressiva rivendica invece, contro il parassitismo dei ricchi oziosi, il diritto dei lavoratori ai frutti del proprio lavoro. Essa è anticipata da John Locke e, con meno ambivalenze, da Nicolas de Condorcet e Thomas Paine, pionieri tra l’altro dell’idea dei sistemi di sicurezza sociale. Figura centrale dell’etica progressiva del lavoro è Adam Smith, critico delle politiche coloniali e propugnatore dell’istruzione pubblica perché necessaria allo sviluppo umano dei lavoratori, la cui intelligenza vedeva sacrificata dalla divisione del lavoro nelle fabbriche. John Stuart Mill, nonostante i lati oscuri in parte legati alla sua carriera nella Compagnia delle Indie Orientali, rifiuta però la concezione puramente aggregativa del progresso di Bentham, cui non importa che l’espansione del benessere di alcuni avvenga a danno di altri, e raccomanda invece la creazione di sindacati e cooperative dei lavoratori, nonché l’introduzione di regole per la divisione dei profitti a loro favore. E si arriva a Karl Marx la cui visione palingenetica, depurata dell’impeto rivoluzionario, viene, grazie alla mediazione gradualista di Edward Bernstein, incorporata nei programmi dei partiti socialisti nati dal movimento operaio in Europa occidentale alla fine del XIX secolo. Si tratta oggi, secondo Anderson, di riprendere il cammino socialdemocratico bloccato dall’ascesa dell’ordine neoliberale, con costi sociali particolarmente gravi per gli Stati Uniti, si pensi solo alla bassa speranza di vita ( quella italiana è circa sette anni più alta) o all’alto tasso di incarcerazione(circa cinque volte il nostro e dieci volte quello norvegese). Ma in generale il sistema del lavoro va ripensato mettendo al suo centro la libertà e la dignità dei lavoratori, pur senza rinunciare alla competizione di mercato. La premessa è che non esiste il Mercato, per così dire “in purezza”, garante di efficienza al costo inevitabile della disuguaglianza. Quadri normativi diversi creano forme di mercato molto diverse con conseguenze che dipendono anche dall’ampiezza nella società dello spazio demercificato, per es. grazie alla produzione pubblica di servizi essenziali quali la sanità o l’istruzione.
Anderson insiste sulla necessità di abbandonare l’idea friedmaniana dello share- holders capitalism, efficiente solo nelle ipotesi visionarie di una economia walrasiana, in base alla quale le imprese non devono fare profitti non importa come, per es. ricorrendo a strategie finanziari di estrazione invece che di incremento del prodotto sociale, o frammentando ed esternalizzando i processi produttivi con lo scopo di annullare il potere contrattuale dei lavoratori. Le imprese vanno invece governate da regole legali (e norme sociali) che le portino a contribuire al benessere sociale ed economico in senso più ampio, non solo quello degli azionisti ma anche quello dei lavoratori, delle comunità locali, dei fornitori, dell’ambiente ecc. Sullo sfondo, il principio rawlsiano che le disuguaglianze sono accettabili solo se vanno a favore degli svantaggiati, con un’importante apertura, rispetto a Rawls, verso il cosmopolitismo, purtroppo solo accennata (a pag. 298).
L’autrice sintetizza molto incisivamente sia le posizioni dei vari autori, sia i contesti storici in cui sono emerse, adottando uno stile la cui brillantezza non va mai a scapito del rigore accademico. Uno dei pregi del volume è la messa a disposizione del lettore di copiose indicazioni bibliografiche, di spiccato interesse quelle del nono e decimo capitolo, che offrono una vera e propria guida ai recenti contributi offerti dagli economisti radicali, specie anglo-americani, al dibattito pubblico contemporaneo.
Allo stesso tempo viene da chiedersi: l’etica del lavoro è un asse adeguato per l’interpretazione dell’enciclopedico corpo di storie e idee presentato? E soprattutto: è una giusta prospettiva per rispondere alle domande che oggi i progressisti si pongono?
Per esempio fare di Marx ma anche di Mill due paladini dell’etica del lavoro, sia pur progressiva, non convince appieno, considerato che il primo assegna al progresso tecnico sprigionato dal capitalismo proprio il fine della liberazione dell’umanità dalla necessità del lavoro, mentre il secondo teorizza la desiderabilità dello stato stazionario e scrive nel capitolo VI del Libro IV dei Principi di economia politica: “Ma la condizione migliore per la natura umana è quella per cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera diventare più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi compiuti dagli altri per avanzare….”
D’altronde nel capitolo 5, intitolato” L’Etica Progressiva del Lavoro I” a pag. 128 Anderson stessa scrive: “[I teorici della tradizione progressista]…Rifiutano la concezione grama della vita buona fatta di acquisizione competitiva in un gioco di status a somma zero. Auspicano una società in cui tutti possano godere di una vita al di là dell’etica del lavoro, che riconosca un insieme più ampio di virtù e beni rispetto a quelli esaltati dall’etica del lavoro. Una società di questo tipo offrirebbe a tutti beni abbondanti di cui godere. Non condizionerebbe l’accesso ai beni fondamentali per una vita dignitosa, o per la partecipazione alla vita comune della società, al fatto di “guadagnarseli” attraverso uno sforzo individualistico”. Non mi sembra dubbio che qui l’autrice riconosca esplicitamente l’insufficienza come orizzonte valoriale dell’etica del lavoro.
E a monte, non avrebbe giovato alla chiarezza ammettere che nella categoria lavoro rientrano oggi occupazioni che collocano chi le svolge in posizioni sociali diversissime, con interessi spesso antagonistici? Come si sa l’esplosione della disuguaglianza negli ultimi decenni ha riguardato anche i redditi da lavoro, non solo lo spostamento del reddito dal lavoro al capitale.
Gershuny (2005) sostiene che il progresso tecnico ha rivoluzionato il valore simbolico del lavoro. Per illustrare questa apocalisse culturale, prende in prestito dalla Teoria della Classe Agiata di Thorsten Veblen la coppia concettuale industry ed exploit. Industry è il lavoro come puro dispendio di fatica, per esempio quello del bracciante agricolo, mentre il prototipo dell’exploit è l’impresa marziale, che porta alla gloria. Per Veblen industry ed exploit si materializzano diversamente nelle varie forme di organizzazione sociale che si sono succedute in Occidente ma il primo è sempre riservato alle classi subordinate e il secondo alla classe dominante. L’impegno estremo nel lavorare diventa un onore per la classe dominante, secondo Gershuny, con il progressivo accrescimento, anche per i più ricchi, del peso del capitale umano, rispetto alla ricchezza finanziaria e immobiliare, come fonte di reddito e come mezzo di trasmissione intergenerazionale della posizione sociale. Naturalmente si tratta di un investimento che rende solo se i figli lavorano. Nasce così una nuova classe, i Working Rich. Gershuny osserva che molte delle attività che permettono oggi ottime carriere nello sport, nella politica, negli affari, in ONG, università, enti artistici e culturali, nel tardo XIX secolo erano invece passatempo di privilegiati. Ma se il lavoro, persino per coloro che lo svolgono nelle forme più ambite, non è solo gioco ma anche sforzo, tuttavia ricomprendere nella stessa categoria lavoratori subordinati e “superordinati” e far valere lo stesso impianto valoriale per tutti i lavori, che siano industry o che siano exploit non sembra possibile. Per capire la rilevanza politica del problema, basti ricordare che i partiti di centro sinistra hanno oggi la loro base elettorale più solida tra i laureati, non tra i lavoratori non qualificati come in passato. L’adozione da parte di questi partiti di una ideologia del merito, con la sostituzione dell’ideale dell’uguaglianza di opportunità a quello dell’uguaglianza tout court è causa ed effetto di questa mutazione.
Nonostante questi limiti, Hijacked, per l’ampiezza e l’acutezza dello sguardo rivolto ai problemi attuali attaverso le lenti dei teorici del passato e’ una lettura assai nutritiva per chi sia in cerca di vie d’uscita dalla crisi democratica che stiamo vivendo. E d’altronde, per dirla con William Faulkner, citato da Anderson, “il passato non è mai morto. Non è nemmeno passato”.