Quale mondo è sostenibile?
L’individualismo può essere di diverse specie. In queste note mi propongo di illustrarle e di sostenere che se è inteso come individualismo democratico può condurre a un mondo realmente sostenibile.
Individualismo. Del genere “individualismo” invito a distinguere quattro specie, disposte in una successione che va dal grado più radicale, accompagnato dal valore assiologico più negativo (ovviamente, secondo i miei criteri di giudizio), al grado più apicale, accompagnato dal valore più positivo. Quattro figure in silhouette, ciascuna connotata nel modo più semplificato ma, spero, non privo di efficacia intuitiva.
La prima specie è quella dell’individualismo neoliberale, della libertà liberal-liberista tendente alla de-regolazione assoluta e compiuta, dove thatcherianamente non esiste alcuna società ma solo individui auto-interessati, soggetti di volontà arbitraria. Nella sua pura idea, un mondo impossibile, come sa chi ha studiato la logica perversa dello ius in omnia in capo a tutti e a ciascuno nello stato di natura hobbesiano. E un mondo assolutamente distopico: non può che precipitare nel bellum omnium contra omnes. Se dall’idea passiamo alla realtà attuale, una sua figura emblematica potremmo riconoscerla nell’apologia della libertà di espressione senza filtri, vincoli e limiti, a beneficio dei social media e dei canali di comunicazione di massa, ammannita recentemente a una stupefatta platea europea dal presuntuosissimo anarco-fascista J.D. Vance, fresco vice-presidente degli Stati Uniti: dove l’individualismo si risolve nella libertà, non solo di insulto e di inganno, ma di circonvenzione degli incapaci, e prima ancora nella produzione degli incapaci di distinguere il vero dal falso, e di abuso della credulità popolare — basti il richiamo al rosario usato nei comizi da certi personaggi come feticcio superstizioso e strumento di odio religioso. L’individualismo liberista radicale, anomico, trova compimento nella falsificazione della verità e nella contraffazione della realtà, perseguite attraverso i canali delle ICT. Dunque, nella morte della democrazia per estinzione delle sue condizioni e precondizioni: se la quintessenza della democrazia consiste nel libero dibattito delle idee, là dove si instaura il regno del libero falso e del libero inganno, dove si rovescia il diluvio inarginabile dei contraffatti che spazzano via i fatti, la dialettica democratica è svuotata di senso.
La seconda specie è l’individualismo del liberalismo classico (della famiglia dei liberalismi classici): il liberalismo del mercato massimo, tendente alla massima estensione, ma non privo di regole imposte dal collettivo alla libertà degli individui di perseguire i propri interessi economici “naturali”. Una variante o sottospecie è quella che è stata chiamata ordo-liberalismo, e che negli anni recenti della grande crisi del 2007-2008 «infiniti addusse lutti agli Achei». Anche questo individualismo è un mondo distopico: dove tutto ha un prezzo, nulla ha dignità.
La terza specie è l’individualismo liberale dello Stato minimo che, per un verso, è complementare al liberalismo del mercato massimo, perché limita le funzioni del collettivo, essenzialmente ridotte all’ordine pubblico e, per l’altro verso, limita i poteri dello Stato (della collettività sugli individui), garantendo quelli che sono comunemente chiamati diritti civili ma più propriamente diritti fondamentali di libertà individuale: dal nucleo originario della libertà personale, l’habeas corpus, ossia la libertà da coazioni arbitrarie e trattamenti inumani; alla libertà di coscienza, pensiero ed espressione; alla libertà di riunione, di manifestazione del dissenso e di protesta; alla libertà di associazione, anche per fini politici. Sono le quattro grandi libertà dei moderni: le libertà del costituzionalismo, dai moti del 1821 all’istituzione delle costituzioni rigide e dei loro custodi, le Corti costituzionali. Ecco la prima forma di individualismo non solo non distopica, ma irrinunciabile per la società moderna.
La quarta specie è quella dell’individualismo democratico. Norberto Bobbio ne ha caratterizzato in modo mirabilmente chiaro la differenza rispetto alle altre: «Il primo [l’individualismo delle famiglie liberali] recide il singolo dal corpo organico della società e lo fa vivere fuori dal grembo materno immettendolo nel mondo sconosciuto e pieno di pericoli della lotta per la sopravvivenza, dove ognuno deve badare a sé stesso, in una lotta perpetua. Il secondo [l’individualismo democratico] lo ricongiunge agli altri individui simili a lui, che considera suoi simili, perché dalla loro unione la società venga ricomposta non più come il tutto organico da cui è uscito [scil.: la comunità premoderna], ma come un’associazione di individui liberi […] in cui le decisioni collettive sono prese dagli stessi individui o dai loro rappresentanti».
Con l’individualismo democratico si passa dalle libertà “negative” — diritti di immunità, di non impedimento, di non costrizione e non interferenza — alla libertà “positiva”, cioè al diritto di autodeterminazione; ma non bisogna mai dimenticare che quelle sono il necessario presupposto di questa: non esiste democrazia se non è liberale (però, io aggiungo, non solo liberale, anche sociale: le precondizioni indispensabili di una democrazia non soltanto apparente risiedono nel grado di effettività di determinati diritti liberali e sociali. Vedi oltre). Orbene: anche il diritto di libertà positiva, il diritto politico di partecipare, ciascuno con egual peso rispetto a ogni altro (una testa, un voto), alla determinazione delle decisioni collettive, è un diritto individuale, è (una forma di) individualismo. E individuali, ossia in capo all’individuo, sono anche i diritti sociali, al lavoro, all’istruzione, alla salute, alla sussistenza, alla previdenza. Tutti i diritti fondamentali sono individuali: i diritti di libertà negativa liberali (terza specie dell’individualismo), i diritti di libertà positiva democratici, i diritti alla giustizia sociale. E sono tutti diritti universali, sono diritti all’eguaglianza tra (gli) individui: all’egual dignità personale, politica e sociale.
Sono (è una delle formule con cui vengono chiamati) “diritti pubblici soggettivi”. Il concetto, cioè il significato di questa formula, esprime l’idea di un rapporto di implicazione reciproca tra bene individuale e bene collettivo: io come individuo ho interesse, e rivendico come mio diritto — cioè legittima pretesa, rivolta allo Stato, alle istituzioni di ogni livello, a tutti gli altri individui, a ognuno e ciascuno —, non solo alla protezione pubblica di tutti i miei diritti, ma a quella dei diritti fondamentali di tutti gli altri individui, omnes et singulatim, del pubblico, dei membri della res publica. In questo modo la «cosa pubblica», la collettività, si presenta come universitas di soggetti «liberi ed eguali in dignità e diritti». Così recita la Dichiarazione universale del 1948. Significa: io ho diritto, ognuno ha diritto di vivere in una società di individui liberi ed eguali. Io eserciterò il diritto di difendere i diritti degli altri là dove li veda violati, e mi aspetto che gli altri esercitino il diritto di difendere i miei quando minacciati. Per fare un esempio attualissimo: il diritto di manifestare per difendere il diritto alla libertà e alla manifestazione del dissenso, dove questo venga represso. Anche perché questo (tipo di) diritto è simultaneamente un dovere: il mio diritto alla garanzia dei miei diritti fondamentali non è altro che il (contenuto del) dovere di tutelarli, dovere che è in capo alla collettività, e cioè a tutti gli altri individui (sostengo: non solo come universitas, ma anche come singuli). Questa, per me, è la “società civile”.
È fuorviante, è errante contrapporre l’individualismo come tale, l’individualismo sans phrase, alla (al senso di) appartenenza alla comunità. Comporta due errori (tali dalla mia prospettiva teorica, ovviamente): ad un estremo, schiaccia la nozione di individualismo su una sola delle sue specie, la peggiore; all’altro estremo, induce per una sorta di contrappasso teorico alla rappresentazione della collettività nella forma della comunità-Gemeinschaft, a cui “si appartiene”, una forma premoderna e anti-moderna, appunto anti-individualistica; mentre la forma tipica della nostra convivenza (“occidentale”), che chiamiamo democrazia per sineddoche usando il nome del suo regime politico, è invece riconducibile alla forma della società-Gesellschaft, a cui non si appartiene ma “si aderisce”.
Anche perché la libertà e l’eguaglianza (beninteso: certe determinate libertà, alcune determinate eguaglianze) si possono e si debbono tradurre in istituzioni della convivenza, in istituzioni giuridiche e politiche; ma questo non è possibile per il terzo dei principi dell’Ottantanove: la fratellanza. Non si può istituire la norma, l’obbligazione giuridica, l’obbligo politico “sii fraterno, sii solidale, sii comunitario”. Non perché sia illecito, ma perché è illogico.
Dunque: non si può obbligare alla fraternità. Ma la solidarietà può e deve essere l’energia morale per combattere le diseguaglianze, per riscattare la libertà e restituire la dignità agli esseri umani.
Fratellanza. Dal momento che l’individualismo — non quello degenerato oltre il senso del limite, non quello assoluto, non quello delle prime due specie — è irrinunciabile per il nostro modello di vita — non il paradigma vittorioso e vandalico del neoliberalismo, ma quello della democrazia costituzionale —, moralmente irrinunciabile per l’etica dell’autonomia e della responsabilità personale, dobbiamo forse rinunciare alla fratellanza? E alla cura della casa comune? Tutto il contrario. La fratellanza, la solidarietà universale (“fra estranei”, diceva bene Habermas) deve essere obiettivo e scopo e mèta di azione culturale, deve poter alimentare la riconquista del primato del pubblico sul privato, oggi dispoticamente dominante: il primato della res humana (et naturalis) sullo ius utendi et abutendi et excludendi aliosche brucia il nostro habitat comune. La fratellanza, la solidarietà deve promuovere questa riconquista, resuscitare “l’ethosuniversale dei diritti”, rivitalizzare “l’età dei diritti” — come dicevano Walter Kasper e Norberto Bobbio nell’ultimo scorcio del Novecento, mentre purtroppo stava già dilagando l’amoralità del mondo mercato neoliberale — proprio per preservare, o meglio restaurare l’individualismo morale, sociale, politico, la dignità della persona. Ci vuole la fratellanza per istituire, restituire, la libertà e l’eguaglianza. A tutti gli esseri umani.
Quale azione culturale, delle menti sulle menti, in quali forme e modi? A mio avviso, anzitutto in negativo. Il paradigma oggi dominante merita un “gran rifiuto”… di tipo marcusiano. Invito a rileggere cum grano salis, e mutatis mutandis, quanto scrisse nel suo Saggio sulla Liberazione, del 1969. Riferendosi ai giovani militanti del ’68 affermò che essi «Hanno risuscitato uno spettro (e questa volta uno spettro che ossessiona non soltanto la borghesia ma tutte le burocrazie sfruttatrici): lo spettro di una rivoluzione che subordina lo sviluppo delle forze produttive e l’elevazione del tenore di vita alla creazione di una solidarietà tra gli uomini, che porti all’abolizione della povertà e del bisogno al di là di ogni frontiera nazionale e di sfera d’interessi e al raggiungimento della pace». Inoltre Marcuse considerava necessaria «una politica di disimpegno metodico dallo establishment e di rifiuto di esso, mirante a una radicale trasformazione di valori. Una simile politica implica una rottura coi modi consueti di vedere, udire, sentire, comprendere le cose, in modo che l’organismo possa diventare ricettivo alle forme potenziali di un mondo non aggressivo e non sfruttatore».
Negli anni Sessanta e Settanta il gran rifiuto del consumismo assunse forme stravaganti, sghembe, ma non tutte disprezzabili. Oggi noi — intendo: mille movimenti, associazioni, gruppi di iniziativa sociale, piccole e grandi istituzioni culturali — dobbiamo opporre alla “benefica avidità”, esaltata sfrontatamente dalle classi dominanti, il mutualismo delle reti di cura interpersonali, la cura della casa comune, l’ecologia integrale. Dobbiamo opporre a questo mondo la secessione morale. Un altro mondo da vivere, adesso.
Un altro mondo è sostenibile. Non questo. Guardiamo al più recente tentativo concreto di salvare questo mondo, intrapreso dopo la lezione della pandemia, peraltro oggi sciaguratamente dimenticata: ebbene, io non credo per nulla, non confido affatto nel PNRR. Non mi riferisco all’efficacia delle singole operazioni previste né all’attuazione del loro complesso, che non sono in grado di misurare né giudicare, bensì all’idea stessa racchiusa in quella formula. Il mondo non ha bisogno di ripresa, ma di allontanamento dal paradigma dominante. Non ha bisogno di resilienza, di ri-gonfiarsi come la rana che per imitare il bue finisce per esplodere, ma di abbandonare il dissennato criterio della “crescita” infinita, dello “sviluppo” indefinito. Sviluppo di che cosa? “Lo” sviluppo senza limiti non è sostenibile. Non ri-gonfiatevi, cambiate pensiero: metanoeite.
Secessione morale, e materiale: costruiamo un altro mondo da vivere. Vogliamo un motto? Lo traggo dal linguaggio religioso, attribuendogli un ampio significato laico: escatologia qui ed ora. Fuori, accanto e contro il mondo trumpiano, putiniano, xijinpingiano. Contro il mondo dello spreco e dello scarto, della marginalizzazione, dell’esclusione e dell’espulsione; della proibizione e repressione del dissenso; e anche (basti qui un cenno) della competitività e della governabilità, parole ingannevoli, carte truccate che nascondono dietro presunte necessità funzionali di sistema perversi effetti sociali e politici. Vogliamo una bandiera, un simbolo? Il fazzoletto partigiano: azzurro e rosa, i colori della nascita e della primavera, ma anche arcobaleno, multicolore della pace e della libera differenza.
Sgomitiamo, creiamo spazio per il nostro altro mondo, sottraendolo a questo mondo, attraverso battaglie culturali, campagne specifiche e mirate. Sono sicuro che avranno successo. Campagne pervicaci, permanenti per la sanità pubblica: l’interesse privato non garantisce la salute pubblica, è barbarie, è anti-civiltà che la salute spetti a chi può comprarsela; contro la sanità privata: è infame che qualcuno possa lucrare sulle attività necessarie alla salute altrui, equivale a intimare “o la borsa o la vita”. Per l’accoglienza e l’integrazione, contro i programmi malvagi e menzogneri di contrasto all’immigrazione come tale, oggi adottati da quasi tutte le forze politiche per ragioni di consenso popolare (populista); ma è un consenso costruito su falsità demagogiche che sono sicuro si possa sgretolare.
Contro le armi: le armi sono strumento del male, sono il male; certo, in stato di natura, di fronte al diritto del più forte, contro i dispotismi orientali e occidentali devi pensare a difenderti, ma come? Sono convinto che valga la pena riprendere, ripensare, sviluppare l’idea della difesa popolare nonviolenta. Contro il negazionismo climatico, contro la povertà, contro le diseguaglianze, per l’ecologia integrale: moltiplicando e articolando le attività di contrasto alle falsificazioni, alla disinformazione sullo stato delle cose, con la strenua opposizione politica agli atti di vandalizzazione naturale e sociale perseguiti dalle classi dominanti di questo mondo.