Finanza

Lavoro e salari in Italia

Il declino di lungo periodo dei salari reali in Italia, e il deterioramento delle condizioni lavorative a cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, si configurano come una vera e propria emergenza sociale ben fotografata dall’ultimo rapporto annuale dell’Istat e che si materializza nella presenza di fasce sempre più ampie di popolazione, famiglie e nuove generazioni, spinte verso la precarietà e l’incertezza sul futuro.

Il peggioramento delle condizioni materiali in cui versa una parte crescente del mondo del lavoro in Italia costituisce anche un pericoloso fattore di disgregazione del tessuto sociale, in grado di alimentare spinte e pulsioni regressive sul piano politico e culturale, che a loro volta erodono le capacità collettive di difesa dei diritti fondamentali di rango costituzionale connessi al lavoro così come la ricerca di soluzioni e risposte all’altezza delle sfide e trasformazioni in corso.

Queste considerazioni e preoccupazioni hanno ispirato i contributi presentati e discussi in un convegno tenutosi all’Università di Torino il 5 aprile 2024 dal titolo “Lavoro e salari in Italia”  e confluiti in un recente volume curato da chi scrive a cui è stato dato lo stesso titolo del convegno (Carocci, 2025). L’obiettivo del volume è fornire un quadro empiricamente e metodologicamente fondato, ma di facile lettura e comprensione, sui diversi elementi di fragilità della struttura occupazionale e delle condizioni del lavoro in Italia. I diversi capitoli mettono in evidenza le principali cause dei bassi salari e della crescita del lavoro povero e precario in Italia, riconducibili, oltre che a processi e tendenze che operano su scala globale (e che hanno visto un generale peggioramento della forza contrattuale del lavoro nei paesi di più antica industrializzazione, ma non solo), ad elementi specifici del nostro sistema economico.

Con riferimento ai primi, la storia economica di questo inizio di nuovo millennio, in particolare nell’area dei paesi OCSE, è stata contrassegnata da due profonde crisi, da un rallentamento della crescita economica, degli investimenti (reali) e della produttività (in particolare nel continente europeo). Tutto ciò a fronte di una iper-finanziarizzazione dei processi di accumulazione e di una crescente instabilità e conflittualità delle relazioni economiche internazionali, entrambe accentuate dalla prepotente ascesa di nuove potenze economico-produttive che hanno sottratto quote di mercato alle aree di più antica industrializzazione. Queste crisi, tensioni e difficoltà si sono scaricate (con più o meno forza) sul mondo del lavoro, in particolare sui salari e sulle “condizioni d’uso” della forza lavoro, grazie anche a un trentennio di politiche neoliberiste che hanno favorito processi di deregolamentazione e delocalizzazione produttiva su scala globale (Baccaro e Howell, 2017). Il cambiamento di paradigma connesso alla diffusione delle tecnologie digitali ha al contempo facilitato la frammentazione dei processi lavorativi, mettendo in concorrenza i lavoratori delle economie più sviluppate con quelli dei paesi di nuova industrializzazione. I segni più evidenti del peggioramento delle condizioni materiali subito dal lavoro nei paesi a capitalismo avanzato negli ultimi decenni sono ravvisabili nel protrarsi di una lunga fase di moderazione salariale, con tassi di crescita delle retribuzioni inferiori a quelli della produttività del lavoro (OECD, 2018) che ha condotto alla tendenziale diminuzione della quota dei salari sul prodotto nazionale a vantaggio della quota dei redditi da capitale e in particolare dalle rendite finanziarie (Dosi et al., 2024).

Se quelle citate sono tendenze globali nella recente storia del capitalismo contemporaneo, le condizioni in cui versa il mondo del lavoro presentano elementi di specificità nei diversi contesti economici nazionali. In particolare, il contenimento della crescita, e in alcuni casi la riduzione, dei salari sono state più marcate nei paesi (aree e contesti locali) caratterizzati da strutture economiche più deboli e collocate in posizione subalterna rispetto a quelle dove si concentrano saperi, tecnologie, capitali finanziari e il controllo strategico delle “catene globali del valore” (Brancaccio et al., 2018). Nei paesi e nelle aree capitalisticamente più deboli la così detta “svalutazione interna” (ovvero la riduzione o il contenimento del costo del lavoro) ha costituto spesso la via principale per mantenere la competitività delle produzioni con la conseguenza di rendere il conflitto distributivo più aspro e penalizzante per il lavoro e aumentare le diseguaglianze economiche e sociali. Fenomeni di polarizzazione economico-sociale, produttiva e tecnologica, e la permanenza di forti divergenze nei livelli salariali, hanno caratterizzato anche la fase più recente del processo di integrazione europea, e sono riscontrabili finanche all’interno di una macro-regione relativamente omogenea come l’Unione monetaria creata in seno al continente europeo (Cirillo e Guarascio, 2015; Celi et al. 2018; Guarascio et al., 2024).

Uno dei messaggi del volume che abbiamo curato è che il declino di lungo periodo dei salari in Italia può essere letto alla luce di questo quadro interpretativo, ovvero come il risultato della combinazione (e coevoluzione) delle tendenze del capitalismo contemporaneo sopra richiamate e di una somma di fragilità specifiche della struttura economica e occupazionale del nostro paese. Tra queste fragilità vanno sicuramente annoverati i tre decenni di bassa crescita economica e stagnazione della produttività, i numerosi elementi di debolezza della struttura produttiva italiana non risolti (ma semmai ulteriormente aggravatisi), gli effetti prodotti da una lunga stagione di deregolamentazione del mercato lavoro, l’assenza di politiche industriali in grado di elevare la qualità delle produzioni e dei lavori disponibili, le modalità e gli esiti di un processo di integrazione europea che ha aumentato divergenze produttive, tecnologiche e nei livelli salariali invece che generare convergenza nelle strutture economiche e nell’ambito dei diritti sul mercato del lavoro.

Seguendo questa traccia interpretativa i contributi presentati nel volume sono stati raggruppati in tre blocchi: il primo fornisce una lettura “strutturale” delle determinanti dei bassi salari in Italia; il secondo esplora la composita area del lavoro povero nel nostro paese; il terzo prende in esame alcuni aspetti istituzionali e il ruolo delle politiche pubbliche.

La prima sezione del libro analizza il declino di lungo periodo dei salari reali in Italia, contrattisi, nel periodo 2000-2023, del 8,1%, a fronte di una crescita media delle retribuzioni nell’area Euro del 5,3%. A trainare il ribasso dei salari è stato il settore dei servizi, dove si sono registrate le maggiori flessioni salariali e dove si è concentrata la (poca) crescita occupazionale e delle ore lavorate degli ultimi decenni. Più in generale, i bassi salari e la loro dinamica negativa sono messi in relazione alla fragilità della struttura occupazionale italiana, al sottostante modello di specializzazione produttiva, al perseguimento di strategie competitive basate sulla svalutazione interna (cioè, sull’abbassamento dei salari, da quando la svalutazione del cambio non è stata più possibile) più che sull’innalzamento della qualità delle produzioni. Viene inoltre mostrato come nell’ultimo quinquennio, anche a causa delle suddette fragilità strutturali, prima la pandemia e poi la recente ondata inflazionistica hanno inferto un ulteriore pesantissimo colpo ai salari reali.

I contributi contenuti nella seconda sezione del libro mostrano come l’incidenza delle basse retribuzioni e l’area del lavoro povero sono particolarmente elevate in Italia, e in forte aumento negli ultimi decenni e che ciò è dovuto in larga misura alla riduzione del numero di ore lavorate dagli individui a bassa retribuzione a causa della diffusione dei contratti part-time e a breve termine. Relativamente alle misurazioni statistiche della povertà si evidenzia la necessità, da un lato, di prendere in esame i redditi dei nuclei familiari e dall’altro di un’analisi che metta a fuoco le condizioni lavorative e reddituali degli individui ed in particolare delle donne. Si mostra, infatti, come il lavoro povero abbia una forte connotazione di genere: la percentuale di lavoratrici a basso salario (19,2%) è quasi doppia rispetto a quella degli uomini (10,5%). Dunque, è alto il rischio per molte donne di cadere sotto la soglia della povertà nel momento in cui decidessero di uscire dal nucleo familiare, rischio che aumenta significativamente in caso di presenza di figli a carico. E ciò implica che per evitare tutto questo molte donne rimangano intrappolate in relazioni familiari indesiderate.

L’ultima sezione del libro prende in esame il ruolo giocato dalle relazioni industriali, dal sistema di contrattazione, dalle politiche di (de)regolamentazione del mercato del lavoro, fornendo valutazioni sull’efficacia di misure come quelle di un salario minimo di legge nel ridurre l’area del lavoro povero. Con riferimento a questo ultimo strumento, se da un lato se ne sottolinea la necessità e l’urgenza per arginare il lavoro povero e la povertà delle famiglie, dall’altro si evidenziano alcuni suoi limiti e la necessità di interventi complementari come l’introduzione di nuove norme sulla rappresentanza, sul part-time e il lavoro precario; questi ultimi due fattori sono, infatti, individuati come i principali responsabili dell’ampia e crescente area del lavoro povero in Italia.

Al di là delle diverse chiavi di lettura e punti di vista emersi nel volume, ci sembra di poter individuare alcuni messaggi convergenti che emergono dal libro sulle principali criticità e sulle strade da intraprendere per iniziare ad invertire la rotta. Il tema delle determinanti della produttività – cruciale per garantire alti redditi e posti di lavoro di qualità – sottende tutto il libro. In particolare è stata evidenziata la debole dinamica della produttività del lavoro in Italia (in assoluto e in confronto ai principali paesi europei) e il suo legame con i bassi salari e la precarietà del lavoro, che hanno permesso la sopravvivenza di un’ampia area di imprese poco produttive, non hanno stimolato gli investimenti e la loro destinazione verso settori ad elevato valore aggiunto e contenuto innovativo; un contesto che ha favorito un indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori e delle rappresentanze sindacali.

Risulta prioritario ridare slancio alla produttività, connettendola in maniera stringente ad un innalzamento della qualità e del contenuto di conoscenza delle produzioni; occorre ridurre il nanismo e la forte frammentazione del tessuto produttivo e dare avvio a cambiamenti nel quadro politico-istituzionale in grado di ridare diritti, tutele, voce e forza contrattuale al mondo del lavoro. Sembra al contempo emergere dalla lettura dei diversi contributi la consapevolezza che tale inversione di rotta richieda un cambio radicale delle politiche da porre in atto, in particolare un cambio di passo, e di contenuto, nelle politiche industriali (incluse quelle scientifiche e tecnologiche), nelle politiche del lavoro (aumentando le tutele all’occupazione), e nelle politiche macroeconomiche e sociali, da rifondare sulla base di una visione alternativa al dogma neo-liberista che ha dominato questi ultimi decenni. Si tratterebbe in sostanza di una vera e propria rivoluzione copernicana o, meglio, di un “ritorno al futuro”, quasi utopistico, ma verso il quale è comunque necessario iniziare a muoverci.