Finanza

MAR-A-LAGO ACCORD. IL MANIFESTO DELLA PAX TRUMPIANA?

Tariff-Man ha colpito ancora. Come annunciato durante l’ultima campagna elettorale, Trump ha avviato una nuova guerra dei dazi. O meglio, ha ripreso una guerra commerciale fatta di una serie di annunci, in parte successivamente annullati o sospesi (tranne che nei confronti della Cina). Il risultato è una sorta di dejà vu’ di quanto già sperimentato nel corso del suo primo mandato presidenziale. Una serie di comportamenti ondivaghi che hanno generato un’enorme incertezza. Con una differenza sostanziale. Nel 2018 l’obiettivo concreto della guerra commerciale era la Cina e la sua politica di indebita appropriazione di tecnologia USA. Oggi è invece difficile capire quale sia il vero obiettivo, sia economico che politico. Nell’opinione di molti analisti, l’ispiratore di Trump non sarebbe Peter Navarro (il tristemente famoso Trade Czar) ma piuttosto Stephen Miran (a capo del Council of Economic Advisers), autore di un paper in cui viene auspicata una profonda ristrutturazione del sistema commerciale e finanziario globale. Tuttavia, la lettura del documento lascia più dubbi che certezze.

Mar-a-Lago Accord. I punti salienti. La proposta di  muove da un punto fondamentale. Il ruolo di moneta di riserva svolto dal dollaro USA ne ha provocato una persistente, sostanziale sopravvalutazione. Ne sono conseguiti continui deficit commerciali e delle partite correnti e una cospicua riduzione di occupazione nel manifatturiero per gli USA. Agli effetti disastrosi per la vita di intere comunità locali si è accompagnata una ridotta capacità produttiva nel campo degli apparati militari e dei sistemi di difesa che ha messo a repentaglio la sicurezza nazionale degli USA. E’ quindi necessario, secondo Miran, eliminare le distorsioni nel sistema commerciale e finanziario internazionale per evitare che il benessere e la stessa sicurezza dei cittadini americani siano posti in discussione.

Miran vede nelle tariffe un potente strumento di pressione negoziale in grado di spingere gli altri paesi a sottoscrivere un nuovo patto con gli USA. Una “Pax Trumpiana” basata su una combinazione di politica commerciale e di difesa, in cui la fornitura sia della moneta di riserva che dell’ombrello militare avviene in base a una nuova suddivisione dei costi. Alla fine della II guerra mondiale gli USA aprivano il loro mercato a condizioni vantaggiose e offrivano un supporto di difesa per creare una rete di alleanze nel mondo della Guerra Fredda, usando il dollaro come strumento della loro  (per facilitare il raggiungimento degli obiettivi politico-militari, come descritto da Saleha Mohsin, Paper Soldiers: How the Weaponization of the Dollar Changed the World Order, 2024). Oggi l’Amministrazione Trump chiede di sottoscrivere un nuovo patto in cui il bene pubblico della sicurezza – garantito dal (ritrovato) potere militare USA – viene co-finanziato dagli altri paesi mediante la sottoscrizione di Treasuries a lunghissimo termine (con scadenza secolare). Contemporaneamente, la re-industrializzazione del paese in alcuni settori chiave richiede un indebolimento del dollaro, ottenuto mediante l’acquisto di valuta estera attuato da un Fondo Sovrano USA in coordinamento con le istituzioni degli altri paesi. Chi non sottoscrive questo New Grand Bargain – frutto di accordo multilaterale di carattere non solo commerciale, ma anche finanziario e militare – viene escluso dall’ombrello militare USA e dall’accesso al mercato USA (in conseguenza dell’imposizione di tariffe proibitive, che al tempo stesso favoriscono i settori oggetto di reindustrializzazione).

Mar-a-Lago Accord. I punti deboli. Il Mar-a-Lago Accord sembrerebbe essere la panacea di tutti i mali (per gli USA). In realtà il ragionamento di Miran è criticabile da diversi punti di vista. In primis perché molte delle proposizioni su cui si fonda la proposta contenuta nel New Grand Bargain sono prive di un chiaro supporto empirico.

Primo punto debole del manifesto di Mar-a-Lago: sostenere che l’emissione della valuta di riserva comporti costi elevati per il suo emittente è davvero al di là di ogni evidenza. E’ sicuramente vero che durante i periodi di crisi, l’apprezzamento del dollaro dovuto all’effetto safe haven comporta per il sistema USA perdite in conto capitale (sulle attività finanziarie estere denominate in valute diverse dal dollaro) che generano il cosiddetto exorbitant duty (Gourinchas, Rey e Govillot, Exhorbitant Privilege and Exhorbitant Duty, CEPR 2017). Ma lo status di valuta di riserva comporta soprattutto vantaggi non indifferenti, dovuti alla possibilità per gli USA di indebitarsi a bassi tassi di interesse (exorbitant privilege) per investire le risorse ottenute in attività ad alto rendimento (denominate in valute diverse dal dollaro). Un gigantesco carry trade (solo nel corso degli ultimi tempi l’Unione Europea ha esportato capitali negli USA per oltre 300 mld. all’anno) capace di generare consistenti profitti (e non costi!).

Anche il legame che unisce la sopravvalutazione del dollaro al deficit commerciale e alla perdita di occupazione nel manifatturiero costituisce un’affermazione tutta da dimostrare. Innanzitutto perché l’andamento registrato negli ultimi 50 anni dall’indicatore di cambio reale effettivo del dollaro non mostra una chiara tendenza alla sua sopravvalutazione. In secondo luogo, perché associare la perdita di occupazione nel manifatturiero soprattutto alle fasi recessive (quando la domanda particolarmente intensa di dollari rende più cospicuo l’apprezzamento della moneta USA) sconta l’ipotesi secondo cui i maggiori costi per il manifatturiero si manifestano soprattutto quando il ciclo economico si deteriora. Ma la perdita di rilevanza del manifatturiero è un processo che non deriva dal ciclo economico, quanto piuttosto da fattori strutturali che riflettono tendenze di lungo termine (peraltro comuni a buona parte del mondo avanzato), a prescindere da quanto avviene al tasso di cambio reale e alla bilancia commerciale. Basterà a tale proposito ricordare il caso della Germania che – nonostante l’ampio avanzo commerciale – ha sistematicamente registrato un calo di occupazione nel manifatturiero nel corso degli ultimi decenni (Krugman, A Note on Trade Deficit and Manufacturing, 2025). Anche sostenere che il deprezzamento pilotato del dollaro serva a ricostituire occupazione nei settori ad alto valore aggiunto del manifatturiero, considerati strategici per la sicurezza nazionale (come farmaceutico e semi-conduttori), costituisce un’affermazione poco credibile. Non è tanto un dollaro debole che può servire a questo scopo, quanto una politica industriale settoriale (targeted industrial policy). Come l’Inflation Reduction Act (IRA) e Creating Helpful Incentives to Produce Semiconductors (CHIPS and Science Act), due interventi di politica industriale varati da Biden che Trump ha ferocemente criticato. A ciò si deve aggiungere che la stessa politica protezionistica potrebbe essere di ostacolo alla reindustrializzazione qualora comporti l’adozione di tariffe anche sugli scambi di beni intermedi, che sono al cuore delle catene di produzione globale del valore. Inoltre, la reindustrializzazione di un sistema come quello americano richiede tempi decisamente lunghi. Non solo per ricostituire capacità produttiva ma anche per riportare le competenze legate allo svolgimento di mansioni ormai andate perdute. Un’operazione che potrebbe essere abbreviata solo consentendo maggiori flussi migratori di lavoratori qualificati (un tema su cui Trump non sembra disposto a concessioni).

Da ultimo, pensare che la tariffa serva a ripianare il deficit commerciale è un pio desiderio. In realtà, in occasione della prima guerra dei dazi (2018-19), l’imposizione di tariffe (soprattutto sui beni cinesi) ha determinato la riduzione del deficit commerciale bilaterale con la Cina. Ma al tempo stesso ha favorito una massiccia operazione di trade diversion. Molte imprese (cinesi e non solo) hanno reindirizzato le loro esportazioni di beni finiti e/o componenti verso paesi-sponda – non gravati dalla imposizione tariffaria – per raggiungere il mercato USA. L’effetto ultimo è stato è stato un ampliamento del deficit bilaterale verso paesi come Messico e Vietnam che ha provocato un aumento (anziché una riduzione) del deficit commerciale complessivo. D’altronde, la determinante del deficit commerciale USA non è, come ricordato da Trump in occasione del varo delle famigerate tariffe reciproche, la presenza di ingiustificati dazi praticati dai partner commerciali USA. Quanto piuttosto l’eccesso di spesa rispetto alla produzione ( Obstfeld, The US Trade Deficit: Myths and Realities, 2025). Una condizione destinata a peggiorare qualora Trump realizzasse il programma di riduzione delle tasse annunciato in campagna elettorale.

Tuttavia, l’anello davvero debole della proposta è costituito dalla “nuova condizione” che si vorrebbe attribuire al dollaro e dal modo in cui questa verrebbe realizzata. Da un lato si vorrebbe un dollaro debole, per favorire la reindustrializzazione e l’eliminazione degli squilibri commerciali (pur sapendo che questo deprezzamento potrebbe comportare maggiori tassi di interesse sui dollari con problemi di finanziamento per il Tesoro USA). Dall’altro lo si vorrebbe mantenere al centro del sistema finanziario internazionale, garantendogli de facto lo status di valuta di riserva (“spingendo” gli altri paesi a sottoscrivere Treasuries di durata secolare a condizioni favorevoli per il Tesoro USA). Due condizioni difficilmente realizzabili, soprattutto perché incompatibili con gli incentivi di tutti altri paesi (nonostante la minaccia di sanzioni quali le tariffe proibitive e l’esclusione dall’ombrello di sicurezza USA). Quale sarebbe infatti la convenienza per un paese a partecipare a interventi miranti a far deprezzare il dollaro (contribuendo in tal modo a generare perdite sugli assets in dollari detenuti), sottoscrivendo al tempo stesso Treasuries secolari con rendimento nullo? Difficile trovare una spiegazione, nonostante la presenza delle sanzioni. Inoltre non andrebbe sottovalutato un altro aspetto, quello riguardante la fiducia. Nel corso della storia, la valuta di riserva ha sempre goduto di requisiti di liquidità e stabilità che derivavano anche dall’esistenza di regole chiare e condivise tra il paese emittente e gli altri stati. Durante le ultime settimane questa condizione non sembra più essere soddisfatta, proprio in conseguenza dell’enorme quantità di incertezza indotta dalle decisioni dello stresso Trump, che ha scalfito la fiducia dei mercati nei confronti dell’emittente la valuta di riserva. L’ovvia implicazione è che al ridursi della fiducia si riduce ulteriormente la spinta ad aderire a un New Grand Bargain che già appare particolarmente oneroso.

Conclusioni. Il New Grand Bargain prospettato da Miran lascia perplessi. Si tratta di un documento che genera più dubbi che certezze. Ne deriva un problema di fondo. Se le decisioni dell’Amministrazione USA non sono supportate da una chiara strategia ma sono frutto di scelte estemporanee, prive di ogni logica, come è possibile avviare un negoziato con Trump? L’incertezza che abbiamo osservato nelle ultime settimane continuerà a farla da padrona. Si produrranno effetti negativi per la stessa economia reale, oltre che per i mercati finanziari che – per la prima volta nella storia recente – hanno evidenziato una perdita di fiducia nei confronti del dollaro come moneta di riserva (Kamin e Sobel, Mar-a-Lago Accord, Schmar-a-Lago Accord, Financial Times, 2025). Un risultato a dir poco paradossale per un presidente come Trump che, solo nello scorso mese di Settembre, aveva affermato: “If we lost the dollar as the world currency, I think that would be equivalent to losing a war” (Trump, Speech at the Economic Club of New York, Settembre 2024). Forse la grande confusione generata da Trump durante i primi tre mesi del suo mandato lo sta portando a perdere la sua prima guerra.