Finanza

Amare il mercato non significa subirlo

Nel commentare sul n. 225 del Menabò l’articolo (comparso sul n. 223) in cui presentavo il mio libro Per un governo che ami il mercato. Una certa idea di intervento pubblico, Andrea Boitani ha svolto una serie di considerazioni importanti e che, come spesso accade tra noi, condivido ampiamente. In particolare, laddove Boitani riflette sulla rilevanza e le implicazioni di politica economica delle questioni che sono rimaste in ombra nel mio libro in ragione delle limitazioni tematiche che mi sono imposto per contenere il ventaglio di problemi oggetto del mio studio. Così, e io sono d’accordo con lui, Boitani sottolinea: la rilevanza delle questioni distributive nel condizionare gli stessi risultati allocativi cui il mercato e l’intervento pubblico che su di esso si esercita riescono realmente a raggiungere; il fatto che un sistema di welfare, grazie alle funzioni redistributive, assicurative e di fornitura di servizi che svolge, incide sulle capabilities e sulle opportunità delle persone con effetti assai importanti sui risultati che l’economia è in grado di conseguire; gli effetti anti-competitivi determinati nell’economia reale dalla concentrazione di risorse e potere che oggi osserviamo nel mondo della finanza e i risultati nefasti della deregulation degli anni ’80 e ’90 in questo settore.

Condivido quindi e sottoscrivo la sua conclusione che “la costruzione di un rapporto d’amore stabile, duraturo (e auspicabilmente reciproco) tra governo e mercato richiede un surplus di attenzione e cura quando si tenga pienamente conto delle questioni che De Vincenti lascia ai margini o fuori del suo campo di indagine”. Del resto, è quanto dico nell’Introduzione al libro, dove rilevo come le analisi e la strumentazione di politica economica che in esso presento non abbiano alcuna pretesa di esaustività: “ulteriori elementi di analisi e proposta saranno necessari per costruire una impostazione di governo dei mercati adeguata ai problemi che abbiamo di fronte e che configurano una transizione economica epocale, dagli sbocchi ancora incerti e dagli elevati rischi sociali”.

Qui mi soffermerò perciò sulle critiche che Boitani mi rivolge con riferimento al tema che sta al centro del mio lavoro: il funzionamento del mercato in generale e, in particolare, il funzionamento dei mercati dei prodotti e del lavoro, nonché i compiti che l’intervento pubblico è chiamato a svolgere nel sostenere il livello di attività e di occupazione del sistema, nel curare attraverso le politiche della concorrenza e della regolazione il modo in cui quei mercati operano, nell’orientarne risultati ed evoluzione attraverso la politica industriale. Un tema che ritengo di fondamentale importanza per costruire una politica che eviti proprio l’errore di cui, come ricorda Boitani, parla Mordecai Kurz: l’illusione che si possa contrastare l’enorme crescita delle diseguaglianze degli ultimi quarant’anni “lasciando inalterate le politiche che hanno fatto crescere il potere di mercato” e limitandosi ad “aumentare tasse e trasferimenti”.

Credo che al centro delle divergenze tra me e Boitani stiano due idee diverse di “mano invisibile” e di conseguenza anche, almeno in parte, dei compiti della “mano visibile”. Boitani fa propria l’idea che la “mano invisibile” racconti di per sé “la capacità del libero mercato, senza alcun intervento pubblico, di raggiungere un equilibrio efficiente”, ossia la sua capacità di soddisfare il primo teorema fondamentale dell’economia del benessere. Ora, l’argomentazione che cerco di sviluppare nel libro procede invece dall’idea che la “mano invisibile” vada intesa in modo più generale, come capacità del mercato di funzionare quale meccanismo impersonale di coordinamento delle scelte, non quindi nel senso più ristretto di un coordinamento che conduce necessariamente a un’allocazione paretianamente efficiente. Il mio approccio è coerente con l’elaborazione teorica che ha analizzato, con avanzamenti importanti proprio negli ultimi cinquanta anni, il modus operandi del mercato quando si abbandonino le ipotesi artificiali sottese all’equilibrio generale walrasiano, una letteratura che ha chiarito la distinzione concettuale tra allocazione delle risorse raggiunta dal mercato in equilibrio e ottimalità dell’allocazione stessa (tra gli altri Okun, Tobin, Simon), nonché il carattere più generale della nozione di equilibrio rispetto a quella di market clearing (vedi in particolare Hahn e Davidson).

Lo sviluppo teorico che al riguardo propongo nel libro consiste in tre passaggi principali. Il primo riguarda la funzione informativa che svolgono i prezzi, che diventa più complessa e articolata rispetto al semplice riferimento alla scarsità. Il secondo riguarda l’idea che – abbandonato l’artificiale mondo walrasiano – il mercato si caratterizzi perché elabora meccanismi (condensati proprio nella più complessa funzione informativa svolta dai prezzi e nei processi di aggiustamento basati sulle quantità) che consentono di effettuare gli scambi nonostante l’informazione incompleta e asimmetrica, i conflitti tra poteri di mercato, l’assenza di mercati intertemporali completi; di conseguenza, quelli che in un’ottica di deviazione dall’equilibrio walrasiano chiamiamo “fallimenti del mercato” sono in realtà testimonianze della capacità di coordinamento del mercato nelle condizioni inevitabilmente proprie delle economie reali. Il terzo passaggio consiste nel sottolineare come questo tipo di analisi microeconomica dia supporto ulteriore alle analisi macroeconomiche che, in condizioni di incertezza ed esternalità, portano a equilibri multipli e a diverse possibili traiettorie di sviluppo o di crisi dell’economia.

Il problema allora non è, come sembra dire Boitani riprendendo Stiglitz, che la “mano invisibile” può essere invisibile semplicemente perché non esiste o perché è artritica. Il problema è che la “mano invisibile”, come tutte le “creazioni umane” (per citare Federico Caffè richiamato da Boitani) si misura con un mondo irto di difficoltà, svolge la sua funzione di coordinamento elaborando meccanismi che consentano di gestire in qualche modo quelle difficoltà, e in questo suo lavoro (“faticoso” lo definisco nel libro) va decisamente apprezzata senza pretendere che raggiunga un risultato ottimale e, se non ci riesce, accusarla di non esistere o di essere malata (artritica). Una visione “laica” della politica economica, come la chiamo nel libro, deve saper accettare che è già molto importante che il mercato riesca in qualche modo a coordinare le scelte e a fungere da stimolatore di innovazione, e deve dare per scontato che un simile meccanismo condurrà in generale a una pluralità di possibili risultati allocativi e di possibili loro evoluzioni nel tempo, una parte dei quali possono essere anche molto lontani dal conseguimento del bene comune (l’esempio che giustamente Boitani richiama del cambiamento climatico); non solo, ma proprio per le difficoltà con cui il mercato si misura, una visione “laica” della politica economica deve mettere in conto che non sempre quel coordinamento ha successo e che quindi possono emergere fasi di rottura e di crisi. Non a caso, ed è un’altra tesi portante del libro, spetta alla politica economica il compito essenziale di interagire col mercato per determinarne risultati e dinamiche e per orientarlo all’interesse generale: l’intervento pubblico come “componente necessaria, non elemento […] distorsivo e vessatorio” (Caffè) di una economia di mercato.

D’altra parte, sul piano pratico, è sconsigliabile negare, come in qualche misura sembra fare Boitani, l’operare della “mano invisibile” e considerare come un viluppo inestricabile la sua interazione con la “mano visibile”: un simile atteggiamento rischia di essere l’alibi per una politica che non si ponga il problema di come il mercato reagisce autonomamente alle scelte della politica economica, per una politica quindi segnata da una pericolosa hybris dirigistica, il modo migliore – ma so che Boitani su questo concorda con me – per ottenere risultati opposti a quelli desiderati (o almeno a quelli pudicamente dichiarati). Non solo, ma proprio la distinzione concettuale tra “mano invisibile” e “mano visibile” aiuta a studiare le logiche di comportamento anche di quest’ultima, in modo da costruire gli snodi istituzionali e la cultura delle regole che facciano emergere, al di là delle possibili “agende private” di decisori e funzionari, l’interesse generale al quale ispirare l’intervento pubblico.

In conclusione, “amare il mercato” non significa “subirlo”: significa saper interagire con esso senza farsene spiazzare e con la consapevolezza dei limiti che segnano la stessa azione della mano pubblica, così da porsi in grado di guidare realmente il mercato verso gli obiettivi che, in ogni determinata fase storica, una società democraticamente organizzata si dà.