Finanza

Blame the victim: la ridefinizione della meritevolezza e lo sciovinismo del welfare in Italia

In Italia ormai da diversi decenni, e ben prima dell’avvento di un governo di destra, sono stati posti in atto processi di sciovinismo del welfare. Come argomentiamo nel nostro recente libro Prima agli italiani. Welfare, sciovinismo e risentimento, (Bologna, il Mulino, 2024) il termine descrive un orientamento di tipo razzista e xenofobo che legittima la priorità accordata alla popolazione nazionale nell’accesso alle prestazioni sociali, sia a livello nazionale che locale, che va facendosi strada anche in Italia. Ciò avviene sia in forma esplicita, attraverso norme apertamente discriminatorie, sia in forma implicita disseminando il percorso per accedere alle prestazioni sociali di ostacoli di natura burocratica, di richieste irrealistiche e, in quanto tali, persecutorie (come ad esempio la richiesta di documenti relativi a proprietà possedute nel paese di origine quando la propria casa o il proprio negozio sono stati distrutta da bombardamenti, eventi climatici estremi o requisiti). La soluzione sciovinista introduce nuovi criteri di meritevolezza, non più fondati solo sulla disponibilità ad accettare qualsiasi lavoro e all’essere in condizioni di svolgerlo, in base ad una distorta interpretazione della “occupabilità”, ma anche riferiti a etichette identitarie, spesso intrise di razzismo, applicate anche a persone che già hanno una occupazione. Alla fine degli anni Novanta David Lockwood parlava di “stratificazione civica” per descrivere una società in cui la realizzazione della piena cittadinanza democratica implica un grado elevato di uguaglianza formale ma, allo stesso tempo, il mantenimento di livelli piuttosto marcati di disuguaglianze sostanziali. Nello scenario contemporaneo, segnato dalla presenza crescente delle migrazioni internazionali, la nozione di stratificazione civica assume un significato più specifico, con la compresenza di persone dotate di status e risorse differenti: alcune sono libere di muoversi all’interno e all’esterno del territorio mentre altre sperimentano restrizioni e, soprattutto, sono esposte al rischio di essere allontanate contro la loro volontà. Nel dare forma a un sistema di stratificazione civica, ciò che Bauböck definisce le “regole di transizione” stabiliscono i requisiti che i non membri devono possedere per acquisire uno status sociale più solido. In un tale regime di inclusione differenziale non sono solo gli stranieri a essere soggetti a valutazione negativa: anche i poveri autoctoni possono perdere “crediti sociali” diventando soggetti stigmatizzabili per attitudini devianti, tratti comportamentali opportunistici, appartenenze territoriali degradanti.  

In questo gioco alla sottrazione, il “tempo” e lo “spazio” sono due categorie chiave. A differenza di chi è stabile, chi soggiorna irregolarmente non ha alcun controllo sulla durata della sua presenza. L’accesso ad alcune prestazioni sociali, ad esempio, può derogare dal principio del bisogno e fondarsi sul criterio, apparentemente di buon senso, del tempo di permanenza in un territorio (secondo cui i lungo-residenti, non i bisognosi, hanno più diritto a ricevere). Ma anche lo spazio può differenziare gli individui, come nel caso del mancato riconoscimento della presenza in assenza di strumenti giuridici e statistico-amministrativi che consentano di identificareunivocamente le persone legate a un dato ambito spaziale e i loro legami con il territorio.

Benché come si è detto lo sciovinismo del welfare abbia messo radici da lungo tempo in Italia, esso è tornato al centro dell’attenzione politica con l’affermazione dei partiti della destra radicale. Concetti come “nativismo” (la primazia dei membri del gruppo originario), “autoritarismo” (la convinzione che esista una società rigorosamente ordinata e uno Stato forte), “populismo” (che fa leva sulla presenza di un capo carismatico capace di interpretare gli interessi del popolo) forniscono risposte tanto efficaci quanto ambigue alla crisi. È su questo terreno che si compie la sconfitta dei partiti tradizionali, e della sinistra in particolare. Incapaci di difendere i ceti popolari tradizionali dalle sfide del mondo globale, subiscono lo slittamento del conflitto sul terreno della mobilitazione anti-establishment (contro le caste) e delle politiche di preferenza nazionale. L’immigrazione, in particolare, rappresenta agli occhi della destra radicale il fattore cruciale, non solo perché alimenta la competizione per l’accesso ai posti di lavoro e alle prestazioni sociali, quanto per la minaccia che porta ai valori fondativi dell’identità nazionale fomentando quello che Pippa Norris e Ronald Inglehart hanno definito «contraccolpo culturale» (cultural backlash), una reazione ai cambiamenti indotti dalle élite progressiste (cosmopolitismo, multiculturalismo, ambientalismo) che amplificano tra i gruppi sottoprivilegiati la sensazione di essere arretrati, superati, minacciati nel proprio sistema di valori.

La politica italiana degli ultimi anni ha rappresentato un laboratorio eccezionale di sperimentazione per la destra radicale. La Lega ha da tempo compreso l’opportunità politica di allargare i suoi consensi a un elettorato orfano della sinistra e penalizzato dalla crisi. Con l’ascesa di Salvini, il partito ha riarticolato le sue istanze in chiave nazionalista sdoganando nel panorama italiano i temi dell’antieuropeismo e dell’anti-immigrazione e ponendo l’attenzione sulla necessità di tutelare il mercato interno, le aziende e la forza lavoro nazionali esposte ai processi globali dell’economia. Ma questo spazio politico occupato a lungo in solitaria si è fatto più stretto con l’affermazione di Fratelli d’Italia (FdI). Più della Lega, attorno all’anti-immigrazione il partito di Meloni ha elaborato una visione sovranista in cui la patria e il patriottismo assumono un ruolo centrale, declinandosi sul piano economico nei termini della difesa del Made in Italy e dei principali assets nazionali, all’interno di una visione non invasiva della regolazione statale. Con l’affermazione elettorale di Fratelli d’Italia si è amplificata una dinamica di concorrenza interna il cui effetto è stato quello di enfatizzare posizioni ostili all’inclusione degli immigrati, abbinate a proclami che esaltano la riscoperta della famiglia, della natalità, della solidarietà di una comunità nazionale tutelante per i «suoi» cittadini più deboli, dentro un modello di welfare minimo che rifugge da visioni assistenzialistiche fondano sul riconoscimento dei diritti.

In presenza di questo scenario inedito, inseguire la destra sul terreno delle politiche escludenti, paranoiche e securitarie si è rivelato un campo minato per la sinistra che, anziché recuperare i voti delle classi popolari, ha finito per perdere parte dei consensi dei ceti medi riflessivi. Le difficoltà a interpretare il momento storico da parte del fronte progressista in Italia si sono tradotte in una sostanziale inazione su questioni cruciali concrete, oltre che simboliche, quali il Reddito di cittadinanza e il futuro del Mezzogiorno. Questioni che, affrontate diversamente, avrebbero aiutato a trasferire il tema immigrazione su altri tavoli, depotenziando lo sciovinismo e rendendo palese che la platea degli esclusi è molto più larga di quanto non appaia.

Mai come dopo il voto del giugno 2024, il welfare corporativo è arrivato al capolinea. È infatti proprio nei paesi rappresentativi di questo modello – ossia nel cuore dell’Europa, e in particolare in Francia e in Germania, oltre che in Italia – che i partiti della destra estrema si affermano in modo clamoroso cavalcando la crisi del corporativismo che aveva garantito in passato condizioni di vantaggio per le fasce tradizionalmente più forti e organizzate del mondo del lavoro, ora marginalizzate sul piano simbolico e culturale prima ancora che economico. La soluzione liberale-liberista, visti anche i magri risultati delle formazioni centriste pro-mercato, non appare praticabile. E neppure lo è il tentativo dei partiti socialisti di eludere il problema spostando la risposta sul piano della difesa generica dei diritti, ma al di fuori di un progetto politico-economico più complessivo capace di indicare uno sbocco alla crisi del capitalismo democratico. Al contrario, la destra radicale ha guadagnato consensi proprio offrendo una «visione» del futuro posizionata dentro un immaginario che promette di sanare il vulnus socioeconomico aperto dalle crisi e da presunte élite che comandano nell’ombra. Come leggere, altrimenti, l’insistenza ossessiva sullo sciovinismo – che è la risposta «concreta» a problemi reali quali la crescita delle disuguaglianze, il declino del welfare pubblico, l’impreparazione delle società occidentali di fronte alla pressione migratoria – i cui effetti collaterali (l’esclusione dei non cittadini) vengono fatti digerire a una fascia di elettori ben più ampia della destra identitaria proprio grazie a un abile lavoro di tessitura del vestito stretto (ce n’è solo per noi e non per quelli «diversi» da noi per valori, storia, abitudini, religione). I risultati delle ultime elezioni nazionali ed europee dovrebbero quindi suggerire alle forze politiche mainstream di ripartire dallo strappo democratico dovuto al logoramento dei diritti sociali, vecchi e nuovi uscendo da scorciatoie inefficaci che strizzano l’occhio alla tecnocrazia (i liberali), a identità sociali a-conflittuali (i socialisti) o al rifugio del tradizionalismo etico (i conservatori), per riprendere il coraggio di confrontarsi su posizioni alternative di società nella dinamica classica del governo-opposizione, e non sotto la copertura delle grandi alleanze.