C’è un giudice in Delaware e non ha paura del CEO di Tesla
Con una recentissima sentenza, la Court of Chancery del Delaware (lo Stato dove sono costituite la maggioranza delle società quotate statunitensi) ha annullato per la seconda volta il pacchetto di remunerazioni approvato da Tesla per il suo CEO, Elon Musk. Considerando che il valore di quanto avrebbe ottenuto Musk si aggira sui 45 miliardi di dollari, è facile comprendere la ragione emotiva dell’attenzione mediatica per la sentenza. Al di là della cifra in sé astronomica, la questione è molto complessa, perché il giudice del Delaware non si pone un problema né morale né di ragionevolezza del compenso.
Veniamo, brevemente, ai fatti. Nel 2018 gli azionisti di Tesla (in cui lo stesso Elon Musk detiene la quota più rilevante, attualmente pari a circa il 13% del capitale) approvarono la proposta del board di riconoscere a Musk un piano di remunerazione che gli avrebbe consentito di ottenere un ulteriore 10% delle azioni dopo dieci anni. Il piano era suddiviso in dodici obiettivi intermedi, basati sul raggiungimento di determinati valori di mercato delle azioni. Musk, quindi, non avrebbe ricevuto somme di danaro al raggiungimento degli obiettivi di crescita, bensì azioni della stessa Tesla (che Musk, a quanto egli affermava, non aveva intenzione di cedere). Il valore astronomico di 45 miliardi di dollari è pari al valore di mercato delle azioni aggiuntive che Musk avrebbe ottenuto a fine periodo se la società avesse raggiunto tutti gli obiettivi.
Alcuni azionisti nel 2023 decisero di impugnare il piano di remunerazione, sulla base di due argomenti principali: in primo luogo, Musk ricopriva di fatto un ruolo tanto significativo da influenzare il board nella redazione del piano; in secondo luogo, i soci, al momento del voto, erano stato mal informati cosicché la loro scelta venne coartata e non fu pienamente libera. Queste argomentazioni stanno alla base della prima sentenza, emessa in gennaio, con cui il medesimo giudice annullò il piano di remunerazione (Tornetta v. Musk, 30 gennaio 2024). Il procedimento decisionale, secondo la corte, sarebbe stato “deeply flawed” a causa del ruolo svolto in concreto da Musk, il quale avrebbe influenzato le scelte degli amministratori, compresi quelli dichiaratisi indipendenti, e avrebbe indirettamente condizionato anche le valutazioni degli azionisti. Di conseguenza, la decisione doveva essere sottoposta a un metro di giudizio molto rigoroso, la cosiddetta “entire fairness”, solitamente applicato alle operazioni con parti correlate o comunque in conflitto d’interessi (in tal senso già Calma v. Templeton, 114 A.3d563, 2015). In base a questo standard, una decisione è valida se la società prova di aver ottenuto un accordo comparabile a quello che avrebbe ottenuto con un soggetto non in conflitto, oppure se la negoziazione tra le parti segue passaggi e accorgimenti analoghi a quelli che si adottano comunemente nelle transazioni tra soggetti indipendenti.
La reazione di Musk e del management di Tesla fu immediata: ripresentarono il medesimo piano di remunerazione all’assemblea, la quale in giugno approvò nuovamente il piano a larga maggioranza (72% dei voti). Anche la seconda decisione venne impugnata e nuovamente la Court of Chancery la annullò con la sentenza di dicembre che ha fatto tanto scalpore.
Quello affrontato dalla corte del Delaware è uno dei problemi più rilevanti della moderna corporate governance: i piani di remunerazione degli amministratori di grandi società, in particolare dei loro amministratori delegati. Negli ultimi decenni, a livello globale le remunerazioni dei top manager sono cresciuti in maniera abnorme, a confronto con l’andamento dei salari e anche dei corsi azionari. E questa crescita non pare essere supportata da alcuna giustificazione razionale, nemmeno in termini di corretti incentivi alla buona gestione dell’impresa. La crescita globale delle remunerazioni dei manager può essere osservata sul piano “micro” alla luce della struttura negoziale dei piani di remunerazione. Questi, infatti, sono contratti tra privati (la società da un lato, l’amministratore delegato dall’altro) i quali, però, sono solo formalmente indipendenti l’uno dall’altro. In realtà, la volontà della società è spesso condizionata dalla posizione del suo amministratore delegato, soprattutto se questo detiene azioni in numero significativo. In termini più tecnici: i piani di remunerazione potrebbero allineare gli incentivi degli amministratori agli interessi degli azionisti ma, allo stesso tempo, essi rappresentano a loro volta fonte di problemi e costi d’agenzia. Per ovviare questi pericoli, molti ordinamenti negli ultimi anni tendono ad ampliare i poteri dei soci sui piani di remunerazione. Negli USA, in particolare, il Dodd-Frank Act del 2010 previde che il comitato remunerazioni, chiamato a negoziare ed approvare il piano, fosse composto esclusivamente da amministratori indipendenti e che i piani di remunerazione dovessero passare dall’approvazione dei soci (sia pure non vincolante) (Dodd-Frank Act §951). Ma questa disciplina federale, come dimostra la nostra sentenza, non toglie che giudici dei singoli stati possano assoggettare al proprio scrutinio la correttezza complessiva del procedimento deliberativo.
Ed è questa la strada percorsa dalla Court of Chancery, la quale entra dentro alle maglie del procedimento decisionale per sindacarne la correttezza sostanziale, persino in un caso in cui i soci hanno approvato il piano (seguendo uno schema di ragionamento solo abbozzato in sentenze precedenti).
Va detto che il management di Tesla ha anche fatto di tutto per irritare la Corte dopo la prima sentenza di gennaio. Infatti, la scelta di far approvare il medesimo piano di remunerazione senza modificare la componente degli amministratori indipendenti (ad esempio nominandone di nuovi per l’occasione) venne probabilmente percepita come uno schiaffo alle richieste della Corte, la quale aveva corroborato con elementi fattuali l’opinione che molti tra gli amministratori che avevano approvato il piano nel 2018 fossero eccessivamente legati alla persona di Elon Musk.
Quel che è più significativo è che per la Chancery Court le informazioni fornite ai soci e le notizie diffuse da Musk non consentissero ai soci un giudizio spassionato e pienamente libero. In particolare, poche ore dopo la sentenza di gennaio, Musk minacciò di trasferire la società in Texas, contando sul fatto che i giudici di quello stato siano meno rigorosi di quelli del Delaware. Inoltre, Musk minacciò che Tesla avrebbe cessato gli investimenti nel settore intelligenza artificiale e auto a guida automatica se egli non avesse ottenuto il 25% del capitale: gli azionisti, quindi, al momento del voto non avrebbero valutato semplicemente la ragionevolezza del piano di compensi (quindi, due opzioni alternative tra loro), bensì avrebbero dovuto tener conto anche dei danni che avrebbero subito qualora Tesla avesse dismesso gli investimenti in intelligenza artificiale, scelta che di per sé dovrebbe essere indipendente dall’entità del piano di remunerazione del CEO. Il problema principale dell’intera procedura, secondo la Corte, riguardava il voto per rappresentanza (proxy voting) che ha ratificato il pacchetto di Musk, il quale sarebbe stato inficiato da informazioni inadeguate e fuorvianti. Il materiale diffuso tra i soci per l’esercizio della delega, infatti, non spiegava a sufficienza quale fosse stato il ruolo del consiglio di amministrazione e del suo comitato per le remunerazioni nella valutazione del pacchetto e, nel complesso, era fuorviante e omissivo. Gli azionisti, quindi, secondo la Corte vennero privati della possibilità di comprendere appieno la posta in gioco del loro voto e non poterono esprimere un voto davvero libero.
Il punto centrale del ragionamento del giudice, quindi, è non tanto l’enormità del valore finale delle azioni Tesla e, quindi, il guadagno di Elon Musk (guadagno, come abbiamo visto, solo potenziale), bensì la correttezza del procedimento che ha portato alla delibera dei soci. Il giudice americano (a differenza di quanto sono usi fare i magistrati nostrani) non ha un approccio formalistico alle questioni di corporate governance, bensì tende a vagliare i fatti e a sindacare le procedure decisionali e la loro correttezza sostanziale, proprio al fine di garantire la libertà delle scelte degli azionisti. Ebbene, nel caso concreto, il problema era proprio la posizione sostanziale di Elon Musk e le informazioni fornite ai soci.
In sintesi, il giudice non compie un vaglio “morale” sull’entità del compenso finale, né sulla sua ragionevolezza economica, solo sulla correttezza e trasparenza sostanziale del procedimento decisionale. Ma nel far questo, il giudice del Delaware pone dei paletti alle decisioni societarie, le quali devono rispettare criteri di ragionevolezza e correttezza. Si può, però, dubitare che questi standard di correttezza sostanziale, pur apprezzabili, avranno un impatto sul fenomeno delle abnormi remunerazioni degli amministratori su scala globale.