Esplorando il potere degli asset manager
Gli attivi mondiali complessivi delle 500 più grandi società che gestiscono fondi di investimento nel 2023 superavano i 128 trilioni di dollari, pari a circa il 121% del Pil mondiale. Oltre il 55% degli asset è US (+ 5% dal 2013), il 25% è europeo (in sensibile calo). Il 45,5% di tutti gli attivi era appannaggio dei maggiori 20 fondi (+ 3% rispetto al 2022), e il 20% dei 3 più grandi, Black Rock, Vanguard e State Street, noti come le Big Three. Le Big Three, insieme, nel 2021 erano arrivate a possedere il 22% delle società quotate dello S&P 500, controllando il 27,5% dei voti assembleari. Qualcosa è cambiato e sta ancora cambiando negli assetti del potere economico a livello mondiale. Appare necessario provare a riflettere su questi cambiamenti,
Nel 2023, i fondi index linked e gli ETF (exchange traded funds, che vengono negoziati in borsa come qualsiasi singolo titolo di società quotata), rappresentavano oltre 1/3 del totale degli asset; una quota in rapida crescita rispetto agli anni precedenti. I tre giganti dell’asset management, inoltre, offrono sul mercato il 75% dei fondi ETF che costano meno (in termini di commissioni) dei fondi “attivisti” (quelli che mettono in atto strategie per ‘fare meglio’ del mercato). Gli ETF sono, in genere, indicizzati a un mercato (il più gettonato è lo S&P 500 americano), ma anche a comparti specifici (high tech o Blue Chips…). In ogni caso, non possono performare meglio del mercato prescelto, visto che le commissioni (per quanto piccole) si sottraggono ai rendimenti. Naturalmente, più ristretto è il comparto prescelto maggiore è il rischio di quello specifico ETF. I fondi ETF hanno attirato negli ultimi 20 anni una quota crescente di piccoli e medi risparmiatori che, con costi relativamente bassi, godono di una performance che, nella sostanza, replica quella del mercato di riferimento, e con rischi mediamente inferiori rispetto a quelli che correrebbero acquistando quote dei fondi attivisti o azioni di singole società. Naturalmente, questo non si verifica se i rischi sono fortemente correlati cosicchè tutti i mercati si sgonfiano, come accadde quando il governo americano lasciò fallire Lehman Brothers (15 settembre 2008) e deflagrò la più grande crisi finanziaria dal 1929.
Gli asset manager degli ETF trasferiscono (almeno in parte) ai sottoscrittori le economie di scala praticamente illimitate di cui godono, grazie a una struttura di costi essenzialmente fissi e al favorevole effetto network: più sono i sottoscrittori, più liquide sono le quote degli ETF e minori i costi unitari di gestione. Né vanno trascurati i guadagni per i sottoscrittori dovuti alla capacità degli asset manager di “fare i prezzi” sui mercati finanziari, anche con la creazione di titoli derivati (A. Volpi, I padroni del mondo, Laterza, 2024). In generale, i gestori di ETF passano i rendimenti ai loro sottoscrittori e guadagnano con le commissioni, peraltro decrescenti al crescere dell’entità della sottoscrizione. Quindi, il principale obiettivo degli asset manager è accrescere il volume d’asset gestiti piuttosto che massimizzare i profitti di breve periodo. I rendimenti, naturalmente, sono importanti per attirare e mantenere la clientela. Ma, con gli ETF, gli asset manager non promettono ai clienti di battere il mercato.
Con la crescita del ruolo degli asset manager e degli ETF molte cose sono cambiate nella governance delle imprese e negli equilibri di potere tra azionisti e tra azionisti e manager. Nonostante i limiti che i diversi ordinamenti pongono al possesso azionario, la quota delle imprese, americane e non, quotate in cui le Big Three sono i maggiori azionisti è in costante crescita. In generale, la quota complessiva detenuta dalle Big Three è più ampia proprio nelle società più grandi. Dalle tabelle a pp. 86-87 nel citato libro di Volpi si evince che le partecipazioni delle Big Three (a fine 2022) erano tra il 26% e il 29,3% nei giganti americani dei settori tradizionali, come General Motors, Ford, Nike, Exxon Mobil; tra il tra 22% e 30% nelle star della nuova tecnologia e dell’intrattenimento, come Amazon, Nvidia, Apple, Netflix e Meta, Microsoft, Adobe e tra il 28% e il 30% nelle protagoniste di Big Pharma, come Pfizer e Merk.
Le partecipazioni delle Big Three sono rilevanti anche nelle maggiori banche e società finanziarie. Negli Stati Uniti, si va dal 17% in Morgan Stanley e Bank of America al 21% in Citigroup e Goldman Sachs, passando per il 20% in Jp Morgan e Well Fargo, per non dire del 27% in PayPal e del 28% in Visa. In Italia, BlackRock, al 1° novembre 2024, era il primo azionista di Unicredit (7%, il 2% è di Vanguard) e, inoltre, deteneva il 5% di Intesa Sanpaolo e di Banco-BPM e oltre il 4% di Mediobanca. In Germania è il terzo azionista di Commerzbank (7,3%) – di cui Unicredit ha il 9,5% – e possiede il 5,8% di Deutsche Bank. In breve, un po’ in tutti i settori, la proprietà si è molto concentrata, superando i livelli raggiunti con l’affermarsi dei fondi comuni di investimento e dei fondi pensione alla fine del secolo scorso, una radicale inversione di tendenza rispetto all’era della proprietà dispersa (A.A. Berle e G.C. Means, The Modern Corporation and Private Property,New York, 1932).
Tale evoluzione è coerente con la prospettiva, propria degli ETF, di un investimento che replica il mercato e la sua dinamica. È plausibile che la crescente importanza nell’azionariato dagli asset manager accresca il loro potere di influenza sulle decisioni del management delle società controllate o in cui la loro partecipazione è cruciale. Il meccanismo potrebbe essere la minaccia di exit, cioè di vendita di pacchetti azionari con rilevante impatto negativo sul prezzo delle azioni, vista la dimensione delle Big Three e la difficoltà di trovare rapidamente sul mercato soggetti capaci di (e disponibili a) acquisire le loro, ormai enormi, quote azionarie. Tra l’altro, i manager delle corporations temono l’exit dei fondi anche perché si ridurrebbe il valore dei loro (non indifferenti) pacchetti azionari e delle loro stock options. Per scongiurare una simile eventualità, essi cercheranno di soddisfare i desiderata dei loro azionisti cruciali, cioè, appunto, i maggiori fondi.
Alcuni studiosi ritengono, però, che la minaccia di exit da parte degli asset manager di ETF non sia molto credibile, proprio per la natura “passiva” delle loro strategie di investimento. E vi è chi addirittura dubita che i gestori di ETF – proprio per la struttura dei loro incentivi – siano interessati alla governance delle singole società nel loro portafoglio, poiché ciascuna di esse incide relativamente poco sul portafoglio stesso. Pertanto, sarebbero deboli gli incentivi delle Big Three a investire nella gestione e amministrazione delle imprese di cui sono azionisti con conseguente tendenza a lasciare il potere in mano ai manager, senza spingerli a massimizzare i profitti (L. Bebchuck, A. Cohen, S. Hirst, “The agency problem of institutional investors”, Journal of Economic Perspectives, 2017; L. Bebchuck, S. Hirst, “Big Three power and why it matters”, Boston University Law Review, 2022,). Il vero potere delle Big Three starebbe, paradossalmente, nel non esercitarlo nella misura richiesta da una corporate governance orientata alla massimizzazione dello shareholder value.
Tuttavia, i massimi esponenti delle Big Three hanno ripetuto che vogliono essere azionisti attivi, ciascuno imponendo strategie centralizzate ai diversi fondi controllati, soprattutto nelle votazioni assembleari ritenute cruciali. Sebbene la minaccia di exit possa non essere credibile, gli asset manager sanno come organizzare la loro voice, minacciando di votare contro il management quando le scelte siano contrarie ai loro interessi di accrescere il valore di lungo periodo. Non si tratta, dunque, di massimizzare il valore trimestre per trimestre, ma neanche di lasciare le briglie sciolte sul collo del management.
Nel complesso, i dati sul proxy voting mostrano che raramente (si stima in meno del 10% dei casi) le Big Three votano contro il management. Più spesso votano contro le proposte del management in occasione del rinnovo dei Consigli di amministrazione. Inoltre, molto frequentemente le Big Three votano all’unisono, finendo per rappresentare, con il loro 25-30% dei pacchetti azionari, la maggioranza assoluta nelle assemblee annuali. Inoltre, per loro stessa ammissione, le Big Three utilizzano ampiamente il proprio potere sotto forma di moral suasion nel corso di incontri a porte chiuse con i manager delle società partecipate. E, forse, per questo raramente votano contro le proposte del management. (J.A. McCahery, Z. Sautner, L.T. Strarks, “Behind the scenes: The corporate governance preferences of institutional investors”, The Journal of Finance, 2016).
Da non trascurare è anche la possibilità che gli asset manager dominanti godano di un “potere strutturale”, derivante dalla loro centralità nel mercato finanziario globale, proprio grazie alla posizione dominante che singolarmente e, ancor più congiuntamente, detengono nel network di proprietà e controllo a livello mondiale (J. Fichtner, E.M. Heemsherk, J. Gracia-Bernardo, “Hidden power of the Big Three? Passive index funds, re-concentration of corporate ownership, and new financial risk”, Business and Politics, 2017); A. Gibadullina “Who owns and controls global capital? Uneven geographies of asset manager capitalism”, Economy and Space, 2024). La già menzionata consistente presenza nei giganti dell’alta tecnologia, della farmaceutica e del settore bancario – nevralgico per il ruolo che ha nella trasmissione della politica monetaria, attraverso il canale del credito – contribuisce non poco alla centralità e quindi al potere strutturale dei grandi fondi e, indirettamente (per le ragioni sopra dette), dei managers delle corporations. Il potere strutturale dei fondi viene ulteriormente rafforzato dalla collocazione sul mercato di ampi pacchetti azionari delle società di gestione delle reti infrastrutturali (da quelle dell’energia, alle autostrade). E ciò al netto di qualsiasi ipotesi (avanzata, per esempio da Alessandro Volpi nel libro prima citato) circa la spinta che tali sviluppi avrebbero ricevuto proprio dai grandi fondi. La tendenza a replicare il mercato è sufficiente a spiegare come accada che le Big Three acquisiscano (direttamente o tramite fondi controllati) quote significative in società che, a loro volta, hanno un peso non trascurabile negli indici di borsa.
Una simile posizione di prominenza strutturale può conferire ai manager dei fondi il potere di disciplinare le scelte del management delle corporations ancor prima che queste vengano esplicitate e presentate al vaglio dei Consigli e delle assemblee, il che contribuisce a spiegare l’efficacia della moral suasion di cui s’è detto. Il probabile esito di ciò è che venga a istituirsi (almeno implicitamente) un patto di coesistenza, fondato sul reciproco riconoscimento di interessi e delimitate sfere di autonomia. Patto che, logicamente, rafforza la posizione di potere di tutti i contraenti. In alcuni casi, poi il top management delle grandi corporation è espresso dalle stesse Big Three ed è perciò garante diretto del patto. Nel cui ambito, in cambio di una provata fedeltà, le remunerazioni del top management delle grandi corporations divengono stellari, sia pure sempre sotto il controllo vigile delle Big Three. A un aumento del potere degli asset manager corrisponde, allora, anche un aumento delle disuguaglianze tra i percettori di redditi da lavoro all’interno delle imprese.
Inoltre, la circostanza che le Big Three controllino insieme ampi pacchetti azionari di diverse grandi imprese che operano in un settore (E. Elhauge, “Horizontal shareholding”, Harvard Law Review, 2016) può indebolire la pressione concorrenziale sui prezzi e, anzi, favorire il comportamento collusivo se i manager di tutte le imprese controllate internalizzano gli obiettivi degli asset manager. Recente ricerca empirica dimostra che questo effetto anti-competitivo del potere strutturale degli asset manager è significativo, dalle aviolinee alle banche, così come significativo può essere il loro ruolo nel rallentare il passo della transizione dai carburanti fossili all’energia pulita (come riportato da Maurizio Franzini sul Menabò, n. 218, 2024). In sostanza, il potere di mercato delle imprese industriali e di servizi (oltre a quello garantito dalla loro voice e dalla loro capacità di minacciare l’exit in un mondo in cui i capitali sono liberi di muoversi), già forte di per sé, può essere rafforzato dagli interessi mossi dal dominio azionario degli asset manager. Non sembra ragionevole trascurare le conseguenze che tutto ciò può avere sulla dinamica economica.
In sintesi, possiamo dire che stiamo assistendo a una evoluzione intrecciata del capitalismo manageriale e del capitalismo finanziario, con una riconcentrazione della proprietà nelle mani dei grandi gestori di fondi ETF e un nuovo compromesso sul controllo tra la finanza, che assume una posizione ancor più dominante che in passato, e il management delle corporations, operanti in mercati meno concorrenziali grazie allo horizontal shareholding delle Big Three. Gli azionisti, diciamo così, “tradizionali”, finiscono per essere di fatto collocati nella stessa posizione dei sottoscrittori dei fondi: quella di rentier. Riconoscere che questo nuovo compromesso possa aver già modificato i complessivi assetti di potere economico a livello mondiale e anche cambiato la percezione e forse la dimensione dei rischi finanziari è il primo passo per ragionare sulle eventuali contromisure, ma anche (per gli economisti di professione) per avviare una riflessione sulla teoria standard della corporate governance, nata e consolidatasi molto prima che i giganti dell’asset management vedessero la luce.