Finanza

I cinesi, che una volta sapevano solo copiare

Il clamoroso successo di DeepSeek, l’intelligenza artificiale made in China che è riuscita a eguagliare ChatGPT pur avendo, rispetto alla rivale statunitense, molti meno microchip nel cervello (solo 50.000 Nvidia H100, secondo i ben informati) ed essendo perciò 20-50 volte più a buon mercato, non è che la punta dell’iceberg di un fenomeno epocale, che sta modificando equilibri economici e geopolitici: l’ascesa tecnologica della Cina. Una “fabbrica del mondo” che abbiamo imparato a conoscere come esportatrice di abbigliamento, mobili ed elettrodomestici (a basso costo), che oggi celebra sui primi gradini del podio dei suoi beni più venduti all’estero veicoli a nuova energia, batterie elettriche e pannelli solari. Prodotti ad alto valore aggiunto in grado di competere nei mercati internazionali con quelli dei paesi più avanzati. Sono i nuovi settori industriali della Cina e il suo dominio di intere filiere hi-tech i veri protagonisti del confronto con gli Stati Uniti d’America, una rivalità destinata a intensificarsi nei prossimi anni, tra i fenomeni più rilevanti della contemporaneità.

L’avvento di DeepSeek, che Donald Trump ha definito una “sveglia” per la Silicon Valley, è stato utilizzato da Pechino per proporsi come faro globale di apertura, per guidare il Sud del mondo nei marosi del protezionismo, che – secondo il rappresentante cinese alle Nazioni Unite – potrebbe trarre benefici dallo sviluppo dell’intelligenza artificiale se a prevalere fosse la cooperazione internazionale. «Huawei, TikTok e ora DeepSeek: su quante altre compagnie gli Stati Uniti vogliono imporre divieti?», ha chiesto Fu Cong in una conferenza stampa al Palazzo di vetro.

Il valore aggiunto del made in China si riflette nel boom del valore delle esportazioni, che nel 2024 ha sfiorato il record 1.000 miliardi di dollari (992 miliardi). L’anno scorso sono aumentate soprattutto le esportazioni cinesi verso i paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (12 per cento) e dall’America Latina (13 per cento), mentre la crescita di quelle verso le economie sviluppate è rimasta modesta: Stati Uniti (4,9 per cento), UE (3 per cento), Regno Unito (1,2 per cento), Giappone (-3,5 per cento). Secondo ING, i dazi supplementari del 10 per cento varati da Trump sulle importazioni cinesi negli Stati Uniti avranno nel medio periodo un impatto negativo pari allo 0,3-0,4 per cento del prodotto interno lordo cinese. Con la diversificazione dei mercati di sbocco (e una minore dipendenza da Stati Uniti ed Europa) si sta finalmente affermando la politica – lanciata da Jiang Zemin già nella seconda metà degli anni Novanta – “diventare globali”, che ha incoraggiato i marchi cinesi ad affermarsi in tutto il mondo. 

BYD, Xiaomi, DeepSeek sono un’avanguardia: in Cina è in atto una vera e propria rivoluzione industriale 4.0, che il partito-stato sostiene (3.600 miliardi di RMB di finanziamenti alla ricerca e sviluppo nel 2024, +8,4 per cento rispetto all’anno precedente) e dirige, selezionando i settori a cui dare priorità. Al momento, in ambito hi-tech, questi ultimi sono: microprocessori, intelligenza artificiale, informatica quantistica. La Cina ha superato la Germania per numero di robot industriali. Nel 2023 ne ha prodotti 430.000, mentre nel triennio 2021-2023 l’installazione di nuovi robot ha sempre superato la metà del totale globale.

Nello Anhui – una provincia agricola tradizionalmente terra di emigrazione verso le metropoli costiere – una delle migliori “startup” del settore, Nio, sforna auto elettriche da linee interamente automatizzate, a due passi da un impianto dove la tedesca Volkswagen apprende i segreti della guida assistita e dell’infotainment dalla cinese Xpeng, con la quale ha siglato una partnership strategica. Il mondo si è capovolto?

Se il piano quinquennale (è atteso quello 2026-2030) di sovietica memoria si limita a fissare gli obiettivi generali dello sviluppo socio-economico, il governo, oltre a indicare la preferenza per determinati settori, mette in atto una serie di politiche industriali. Tra queste, di particolare rilievo è la promozione di grandi cluster, che favoriscono la ricerca, l’abbattimento dei costi, la produttività e l’innovazione. In ambito hi-tech esistono attualmente 38 mega agglomerati, che racchiudono circa un terzo delle imprese hi-tech del paese, e che ospitano aziende private e pubbliche, locali e straniere. Ad esempio, per quanto riguarda le energie rinnovabili, quelli più importanti sono localizzate nella Cina orientale, in particolare a Pechino, Shanghai, nel Guangdong, nello Zhejiang e nel Jiangsu, tutte, municipalità e province, guidate dagli ambiziosi obiettivi delineati nei rispettivi piani quinquennali. Mentre in occidente si continua a considerare come vantaggio competitivo delle aziende cinesi soprattutto il costo del lavoro (in diversi settori in costante crescita) e i finanziamenti governativi (le imprese statali generano solo il 40 per cento del Pil), gli incentivi messi a disposizione dell’intero ecosistema industriale includono in realtà il basso costo dell’energia (anche per l’impiego, tuttora massiccio, di carbone), una logistica ultra-sviluppata e i sussidi diretti ai nuovi settori, come, ad esempio, l’energia pulita e i veicoli elettrici. 

Non va inoltre sottovalutata l’importanza della nuova manifattura cinese all’interno della narrazione patriottica ufficiale, un discorso che viaggia a media unificati, dai siti d’informazione, alle serie tv: i successi hi-tech avvicinano la Cina al secolare obiettivo di diventare finalmente “ricca” e “forte”, che ha rappresentato la strategia “anti-coloniale” di tutti gli intellettuali e i politici cinesi fin dalla metà dell’Ottocento (Mao Zedong e Xi Jinping inclusi). Quanto le corporation cinesi (Tencent, Alibaba e i giganti della gig economy) diano luogo a lavori di “qualità” e quanto diffondano benessere è oggetto di discussione. Sta di fatto che l’aumentata tassazione e la supervisione da parte del governo delle attività di questi giganti privati mira anche a ridurre le disuguaglianze in una fase di complessivo rallentamento della crescita.

Anche i finanziamenti elargiti “liberamente” da Jack Ma allo sviluppo rurale così come le attività filantropiche del magnate del commercio elettronico appaiono come mosse del governo per dare un volto più umano a quella gig economy che impiega milioni di giovani sottopagati, a cominciare dai fattorini che scorrazzano su scooter elettrici invadendo i marciapiedi per accelerare le consegne ed essere così premiati dall’algoritmo.

Tornando allo sviluppo tecnologico, Volkswagen in testa, i principali colossi tedeschi hanno riconosciuto la capacità d’innovazione della Cina, abbracciando la via della cooperazione col capitale cinese in luogo di quella del protezionismo e del “de-risking” promossi dagli Stati Uniti.

Le vecchie joint-venture (ad esempio quella tra Volkswagen e la shanghaiese SAIC) nell’era dei veicoli elettrici e ibridi perdono terreno. Ora sono i brand occidentali a cercare alleanze con quelli cinesi. Volkswagen, ad esempio, impara da e collabora con compagnie cinesi di software e componentistica: per abbattere i costi di produzione, creare una più ampia varietà di modelli e sfornare auto tecnologicamente all’avanguardia nei sistemi di guida assistita, adatte ai consumatori cinesi. La Cina insomma per diversi settori industriali è diventata un imprescindibile laboratorio di sperimentazione. In quello dei veicoli a nuova energia (Nev), ha accumulato vantaggi rispetto all’occidente grazie a due fattori: da un lato, la forza della preesistente industria dell’auto tradizionale (seppur con motori relativamente scadenti); dall’altro, aver puntato sulle batterie al litio ferro fosfato (Lfp), una scelta rivelatasi vincente rispetto a quella del resto del mondo a favore di quelle, meno performanti, agli ioni di litio.

Il mercato cinese dell’automotive è attualmente affollato da una cinquantina di compagnie che stanno combattendo una feroce guerra dei prezzi, entrata nel suo terzo anno. Con ogni probabilità, in un futuro non troppo lontano, poche sopravviveranno (BYD, Nio, Huawei, Xiaomi, Xpeng…), le altre saranno spazzate via.

In una recente audizione al Congresso (Made in China 2025 – Who Is Winning?”) da parte degli economisti ed esperti di relazioni Usa-Cina ascoltati dalla U.S.-China Economic and Security Review Commission, a Washington l’allarme è suonato più forte che mai: credevamo che i cinesi potessero solo copiare, al contrario hanno dimostrato di saper innovare e gli Usa sono al momento incapaci di fronteggiarli – hanno sostenuto.

In ambito tecnologico a prevalere sarà alla fine l’ibridazione, oppure nasceranno due mondi paralleli, uno a guida cinese, l’atro trainato dagli Stati Uniti? Le politiche di “de-risking” promosse dall’occidente, l’affermarsi di filiere più corte e vicine a paesi amici (“re-shoring” e “friend-shoring”) puntano decisamente a questo secondo esito. Tuttavia la forza dello sviluppo della Cina e il ritorno di Trump possono aprire scenari fino a poco fa inimmaginabili, come quello di un riavvicinamento dell’Europa alla Cina.


Tra le iniziative utili per approfondire la conoscenza della capacità d’innovazione della Cina e della sua ascesa hi-tech ricordiamo THE CHINA SCHOOL “China’s Hi-Tech Rise: Strategies, Players and Perspectives”, un viaggio al centro dell’ascesa tecnologica della Cina che si svolgerà dal 14 al 28 luglio 2025 tra Milano, Pechino e Shanghai, organizzato dal Centro studi sulla Cina contemporanea (CSCC) e dalla Graduate School of Management del Politecnico di Milano, con il patrocinio della Camera di commercio italiana in Cina.