Finanza

Il finanziamento delle infrastrutture: non abbiamo formule magiche    

Il ritorno delle infrastrutture al centro della scena. Dopo anni durante i quali, a torto o a ragione, si è argomentato che il problema del nostro sistema produttivo non era tanto la carenza di infrastrutture (che pure….) ma piuttosto l’inefficienza dei servizi, oggi si torna a parlare di sviluppo delle infrastrutture, in particolare (ma non solo) di quelle di trasporto. Non che i servizi siano diventati efficienti ma è indubbio che – mentre alcune infrastrutture, costruite solo per ragioni di consenso elettorale, rimangono sovradimensionate – una buona parte delle reti inizi ad essere satura e inadeguata. Si pensi allo stato delle reti elettriche e del gas, alle reti idriche, agli impianti per lo smaltimento e il riciclo dei rifiuti. Si pensi, ancora, alla rete ferroviaria, alle crescenti esigenze di manutenzione, al “sovraccarico” della capacità infrastrutturale in alcune fasce orarie e ai conseguenti disagi sempre più di frequente sopportati dai viaggiatori. Si pensi anche alle condizioni di deterioramento dei ponti e della gallerie stradali e autostradali, con gli associati rischi di crollo, peraltro acuiti dall’aumentata frequenza degli episodi metereologici estremi dovuti al cambiamento climatico in atto. Per oltre un decennio, malgrado l’ingresso di un secondo operatore nell’alta velocità e la presenza di numerosi operatori nel trasporto ferroviario merci, la gestione della rete da parte di RFI (separata societariamente da Trenitalia ma pur sempre parente prossima) non è stata soggetta a lamentele da parte degli utenti della rete ovvero, come si usa dir oggi, a perseguire tentazioni di self-preferencing. D’altro canto, quando c’è spazio per tutti è più facile mantenere la virtù e, comunque, eventuali abusi risultano più evidenti. Bisogna vedere cosa accadrà ora che si è più prossimi alla saturazione.

Si torna pertanto a parlare del modo migliore per ampliare e ripristinare le infrastrutture esistenti, per realizzarne di nuove e, soprattutto, come finanziare tutte queste opere. Si torna a discutere dei “fondamentali”: cosa può fare il mercato quando la redditività è differita, cosa può fare lo Stato quando il mercato “fallisce”, quando gli obiettivi sono di lungo periodo (ah, il lungo periodo, quando “quasi tutto è possibile” …), cosa può fare lo Stato direttamente – ovvero, indirettamente – per attrarre i capitali dei privati e, quando questi vi siano, come ripartire i rischi in modo equilibrato e sostenibile tra soggetti pubblici, gestori e consumatori. Non ultimo, cosa occorre fare per garantire che l’ampliamento delle infrastrutture si coniughi con un contesto concorrenziale e con modalità di accesso alle infrastrutture eque e non discriminatorie. Non abbiamo la formula magica, ma avere ben presenti i pro e i contro delle varie soluzioni crediamo sia già un passo avanti.

Condizioni imparziali di accesso. Sull’imparzialità delle condizioni di accesso all’infrastruttura è (o almeno dovrebbe essere) patrimonio comune che un ruolo decisivo gioca il grado di separazione tra la gestione dei servizi e la gestione dell’infrastruttura. Separazione che può assumere diverse forme, che incidono, in definitiva, anche sul suo grado. La separazione contabile prevede che all’interno della stessa società (non importa se pubblica o privata) i costi e i ricavi riconducibili alla costruzione, manutenzione e gestione dell’infrastruttura vengano separati nettamente da quelli relativi ai servizi. La separazione societaria prevede che infrastruttura e servizi siano di competenza di società separate ma sotto il controllo del medesimo proprietario, come nel caso già menzionato di RFI e Trenitalia, entrambe facenti parti del gruppo FS, con azionista (per ora) unico il Ministero dell’economia. Un caso di separazione proprietaria è, in Italia, il settore elettrico, dove Terna è proprietaria e gestore della rete ad alta tensione e provvede a garantire l’equilibrio continuo tra domanda e offerta di elettricità, mentre diverse società producono e distribuiscono energia. Nel corso degli anni si è avuto modo di osservare quanto complesso possa essere il ruolo di un regolatore per garantire un utilizzo imparziale delle infrastrutture a fronte di soggetti pienamente integrati o solo debolmente separati. In altre parole, e più direttamente, la separazione proprietaria dovrebbe essere la soluzione da privilegiare.

Le decisioni di investimento e la scelta pubblicaIn merito alle decisioni di investimento, far fronte alle carenze infrastrutturali e alle manutenzioni straordinarie, è più complesso sia per la natura delle decisioni – che non possono che perseguire obiettivi collettivi e di lungo periodo, fisiologicamente estranei all’interesse privato – sia per la scarsità di risorse a disposizione dello Stato. Anche a questo riguardo, almeno in parte, torna centrale la questione della separazione tra rete e servizio. Se a gestire la rete è l’ex-monopolista, più o meno “separato” ma presente nei mercati a valle dei servizi, oppure più gestori integrati sarà loro interesse limitare eventuali ampliamenti della capacità infrastrutturale a meno che tali ampliamenti non mettano in discussione l’equilibrio monopolistico. E l’insufficiente investimento appare difficilmente configurabile come una violazione del diritto antitrust, più precisamente come un abuso escludente. Infatti, mentre alle imprese in posizione dominante titolari di infrastrutture “essenziali” possono essere contestate condotte discriminatorie volte a ostacolare l’accesso all’infrastrutture dei concorrenti nei mercati a valle, non altrettanto sembra possibile nel caso di decisioni che non rispondano a interessi di carattere collettivo. Ma – e questo rileva per quel che interessa la modalità di finanziamento delle infrastrutture – anche la forma più radicale di separazione, quella proprietaria, può non essere sufficiente ad assicurare uno sviluppo della capacità infrastrutturale tale da creare uno spazio adeguato a un efficace confronto competitivo. 

Come ricorda Michele Grillo in un bell’articolo di ormai quasi vent’anni fa (Infrastrutture a rete e liberalizzazione delle Public Utilities, in “Le Virtù della Concorrenza. Regolazione e Mercato nei servizi di pubblica utilità”, a cura di C. De Vincenti e C.E. Vigneri, Il Mulino, 2006), un’impresa privata, legittimamente risponde solo ai segnali di mercato che non necessariamente sono compatibili con equilibri concorrenziali o, comunque, con obiettivi di carattere collettivo. Pertanto – e a qualcuno potrebbe sembrare paradossale (ma, a nostro avviso, non lo è) – la titolarità pubblica delle infrastrutture appare in linea di principio la modalità più appropriata per una gestione socialmente efficiente. La stessa Autorità antitrust, in relazione alla rete elettrica, vent’anni fa auspicava di affidare a un soggetto “mosso da strette finalità pubblicistiche” la proprietà e la gestione dell’infrastruttura, in ragione delle decisioni relative all’accesso e, soprattutto, “per quanto attiene alle decisioni di investimenti strutturali di rete” (Agcm, “Riunificazione della proprietà e della gestione della rete elettrica”, 2004). A dispetto di ciò, in Terna la mano pubblica (attraverso Cdp) ha solo il 29,85% delle azioni e si parla di vendere a fondi di investimento partecipazioni (per ora di minoranza) del gruppo FS…

Rose e spine del coinvolgimento privatoCi sono almeno due ma. Il primo riguarda la scarsità delle risorse e la difficoltà di reperirle senza che il costo (e con esso il rischio) dell’investimento, almeno nell’immediato, ricada sugli utenti sotto forma di prezzi o tariffe più elevate. Il secondo, altrettanto serio (ma che forse “prova troppo”, laddove impedisse qualsiasi progetto di lungo periodo), è invece rappresentato da una presupposta attrazione fatale per il consenso di breve periodo oggi attribuita alla politica, sulla base, a dire il vero, di qualche evidenza in tal senso.

Il problema del finanziamento, tuttavia, resta impregiudicato anche nel caso si decida di attrarre capitali privati e di orientarli verso obiettivi collettivi grazie al contributo delle autorità di regolazione. Anche in questo caso vengono alla luce almeno due ma… Il primo. Se, mantenendo in mano pubblica la titolarità dell’infrastruttura occorre trovare le risorse per far fronte alle possibili e forse probabili (ma non inevitabili) inefficienze della gestione pubblica e per compensare gli utenti, nel caso dell’affidamento ai privati, la disponibilità di risorse pubbliche appare altrettanto rilevante. Non più compensazioni o sovraccosti ma trasferimenti per “allungare” gli orizzonti temporali dell’impresa privata e incentivi finalizzati ad annullare/ridurre il rischio per un’operazione “non di mercato”. Non per questo si tratterebbe di risorse più contenute – ed è questo il secondo ma – soprattutto se si pensa che nel contrattare il rendimento del capitale necessario per accettare la sfida di obiettivi di carattere collettivo, l’impresa privata utilizzerà tutto il suo potere negoziale, lo stesso potere che le imprese integrate utilizzano per ostacolare l’accesso ai concorrenti e per limitare gli aumenti della capacità dell’infrastruttura a quelli compatibili con un contesto monopolistico. Del potere negoziale dei concessionari risente non poco anche il legislatore. Se ne trova traccia persino nel recente disegno di legge Concorrenza laddove si prevede che la durata della concessione possa superare il limite dei 15 anni quando “il programma dei lavori da affidare in concessione non consenta il recupero degli investimenti e il ritorno del capitale investito…”.

Costo del capitale e debito pubblico. Il rendimento del capitale è pertanto componente fondamentale per la dinamica tariffaria delle infrastrutture italiane regolamentate, almeno in parte, in base al capitale investito netto (CIN) e al suo costo medio (WACC), tra le quali vi sono le autostrade. Il WACC dipende dal costo dell’equity e dal costo del debito, pesati con le loro rispettive quote nel CIN. Il costo dell’equity esplicitamente e quello del debito (ai tassi di mercato vigenti all’inizio del periodo regolatorio) implicitamente incorporano un premio per il rischio finanziario. Tanto maggiore è il premio per il rischio riconosciuto in sede di approvazione dei piani finanziari e di determinazione del meccanismo tariffario – che dovrebbe garantire l’equilibrio tra ricavi attesi e costi riconosciuti -, tanto più il rischio viene trasferito sugli utenti. Soprattutto quando questi non abbiano infrastrutture alternative di qualità comparabile da utilizzare per soddisfare le proprie esigenze e, quindi l’elasticità della loro domanda rispetto al prezzo (leggi tariffa) è bassa. E a maggior ragione quando sia addirittura previsto un sistema di compensazione (ulteriore aumento delle tariffe) a vantaggio dei gestori qualora il loro equilibrio economico finanziario non sia stato garantito nel periodo regolatorio precedente.

Si potrebbe argomentare che il costo dell’indebitamento pubblico incorpora, in genere, un premio per il rischio inferiore a quello che i privati riescono a spuntare in sede di contrattazione sul WACC e che, quindi, il finanziamento integralmente pubblico delle infrastrutture permette di evitare le complessità regolatorie cui si è accennato. Inoltre, risulta sempre in prezzi inferiori per gli utenti o, in alternativa, apre lo spazio per attuare politiche tariffarie volte a garantire un uso efficiente delle infrastrutture (un obiettivo evidentemente pubblico). Il riferimento è, per esempio, alla discriminazione per fascia oraria e periodi dell’anno, che rende più costoso l’uso dell’infrastruttura nelle ore e nei giorni di picco del “traffico” (peak-load pricing). È necessaria, tuttavia, una qualche cautela in considerazione del fatto che un ulteriore aumento del debito pubblico, in paesi già altamente indebitati, come il nostro, potrebbe far salire i tassi richiesti dal mercato, con conseguente appesantimento degli oneri su tutto lo stock di debito. Inoltre, al di là delle inefficienze gestionali – che non possono certo essere considerate una condanna inevitabile – sarebbe da valutare la capacità realizzativa delle società pubbliche esistenti o di nuove eventualmente da creare a tale scopo, a fronte di esigenze davvero ingenti e non rinviabili. Come anticipato, la complessità delle questioni è elevata e non ce la sentiamo di fornire ai lettori un’indicazione univoca, “la formula che mondi possa aprirti”.