IL RAPPORTO DRAGHI, LA COMPETITIVITA’, LA POLITICA (prima parte)
Analisi tecnica di una crisi politica che investe i fondamenti stessi di tutto il processo europeo: così ci sembra ragionevolmente definibile il rapporto sulla competitività europea di Mario Draghi (The future of European Competitiveness), che da un lato lancia il sasso dichiarando l’esistenza di uno stato di vera e propria emergenza, dall’altro nasconde la mano, rifiutandosi di identificare le cause e il processo che a questo punto ci hanno portato.
Draghi si conferma parte di una classe dirigente europea alla quale i risultati storici della seconda guerra mondiale, resi ancora più cogenti dalla sparizione dell’Unione sovietica, impediscono tuttora di avere un pensiero politico autonomo sui destini del nostro continente. È proprio il ritorno della guerra che ci ricorda perentoriamente ogni giorno il peso determinante delle gerarchie di potere che si stabilirono tra le due sponde dell’Atlantico alla fine del secondo conflitto mondiale. Vale oggi per l’Europa quello che un tempo si diceva per la Germania. Rinata dopo il 1945 come gigante economico, l’Europa continua ad essere condannata da quella sconfitta a rimanere un nano politico. La gravità, la vera e propria emergenza presente nella situazione attuale consiste nel fatto che il nanismo politico- reso istituzione con il Trattato di Maastricht- impedisce sistematicamente le azioni necessarie a mantenere i successi economici conseguiti, in un contesto internazionale radicalmente mutato rispetto a quello della guerra fredda, in cui scelte e decisioni strategiche tempestive sarebbero quotidianamente necessarie.
1. Il peso dei rapporti di forza politici deve essere apprezzato già nella valutazione dei dati relativi al confronto di produttività tra Usa e Ue. L’industria europea produce ed esporta molto di più di quanto importa, quindi è sotto questo profilo più competitiva di quella americana che subisce un deficit commerciale cronico finanziato solo dalla possibilità di stampare dollari. Che il biglietto verde continui ad essere moneta di riserva, anche se crescenti sono le minacce rivolte al suo primato, provoca una sua sopravvalutazione che si riverbera sull’insieme dell’economia americana, spingendo in alto il valore effettivo degli indicatori economici espressi in dollari, incluso quello della produttività.
Se la Cina riuscisse a creare un sistema monetario alternativo, oppure più semplicemente a denominare nella sua valuta, o in un insieme di valute diverse dal dollaro, i suoi grandi flussi commerciali con le aree emergenti del mondo, la domanda, e quindi la quotazione, del biglietto verde ne risentirebbe pesantemente. Un risultato analogo si avrebbe se decidesse di ridurre il volume delle sue sottoscrizioni di buoni del tesoro americano.
Del resto si giunge a risultati diversi, nella misurazione della ricchezza, se si usa il dollaro o gli Standard di Potere d’Acquisto (PPA) che tengono conto del livello dei prezzi all’interno di ogni paese. Nel 2023 gli Usa hanno avuto in dollari un Pil superiore di 1,5 volte rispetto a quello della Cina e di 6,1 volte rispetto a quello della Germania. Usando il PPA il Pil cinese supera di 1,27 volte quello americano, mentre la differenza tra Usa e Germania si riduce al 3,4. Più in generale l’economia americana, che media attraverso il mercato prestazioni che sono altrove gratuite o semigratuite (si pensi alla sanità e alla scuola), gonfia artificialmente il valore della produzione di interi settori economici.
Questo non toglie che vi siano settori dell’informatica e dell’elettronica in cui gli Usa, diversamente da quanto accade nei settori manifatturieri, prevalgono nettamente. I grandi oligopoli di Microsoft, Facebook, Amazon, Intel, Nvidia, si spiegano con una indubbia capacità innovativa (spesso sostenuta da massicce doti di spesa federale, come hanno dimostrato gli studi di Mariana Mazzucato), ma anche con i vantaggi direttamente o indirettamente conseguiti grazie alla posizione di junior partner dell’Europa.
Può essere interessante ricordare come il problema fosse ancora sentito negli anni Sessanta. Il celebre libro di Jean-Jacques Servan-Schreiber sulla “sfida americana” (1967) denunciava il pericolo che gli investimenti americani in Europa finissero per rappresentare la terza economia mondiale dopo quelle di Usa e Urss. Favorire attraverso la concentrazione l’aumento delle dimensioni di impresa divenne un obbiettivo della politica economica francese, con successi non trascurabili soprattutto nell’agricoltura. Gli sviluppi successivi hanno tuttavia mostrato che l’Europa ha saputo dare vita ad un sistema produttivo dinamico anche nel campo delle piccole e medie imprese. Soprattutto in Italia e in Germania questa dimensione d’impresa ha manifestato livelli di eccellenza tecnologica nei beni di consumo, nei servizi, nelle subforniture di qualità. I successi europei nella moda, nell’agroalimentare, negli yacht, e aziende come Ferrari, BMW, Mercedes, Airbus, sarebbero impossibili senza una rete di forniture di altissima qualità.
L’Europa è invece rimasta “nana” in tutte le produzioni in cui non era sufficiente la creatività e la organizzazione di reti d’impresa, ma occorreva il convinto impegno degli stati con colossali investimenti in ricerca e sviluppo, quali sono messi in opera oggi dalla Cina e dagli Stati Uniti.
Nella chimica l’Europa occupa ancora (per il ruolo di Francia e Germania) posizioni importanti a livello internazionale, anche se minacciate per l’incremento dei costi energetici. Nella siderurgia l’Europa si difende nelle seconde lavorazioni collegate ad impieghi manufatturieri, ma è fuori mercato nella siderurgia di base, quella che crea la materia prima, a causa dei costi energetici, come dimostra anche il trascinarsi della crisi dell’Ilva di Taranto. Sempre più convenienti sono gli approvvigionamenti da Cina, India, Turchia. Nel fotovoltaico l’Europa che pure promuove le tecnologie pulite è un buon applicatore di tecnologie altrui, con decine di migliaia di installatori ma nessun produttore, in un mercato in cui anche gli Usa soffrono di fronte allo strapotere cinese.
Il Rapporto non dice, inoltre, che l’Europa neoliberale è rimasta vittima della sua esaltazione del mercato, che ha prodotto immobilismo rispetto all’insieme dei paesi asiatici che hanno saputo instaurare un efficace rapporto di collaborazione tra Stato e imprese. Gli stessi programmi comuni, come quello sulla transizione ecologica o quello sulla ricerca, non si sono mai tradotti in un effettivo coordinamento europeo. Di contro l’apertura alla finanza internazionale fa sì che i grandi fondi, spesso americani, di private equity si possano impadronire di settori importanti dell’apparato produttivo europeo gestendoli in un’ottica di redditività immediata e di breve periodo.
Quando poi l’Europa ha espresso l’intenzione di una presenza in campi industriali “sensibili” è scattato un veto politico. Il preannunciato sistema europeo di satelliti “Galileo”, che avrebbe potuto insidiare l’americano GPS, non è mai decollato. Per rimanere all’Italia la creazione dell’Eni si scontrò duramente con il cartello internazionale delle “sette sorelle”. La nostra Olivetti dovette lasciare il passo alla IBM.
Per tornare all’oggi, è tutt’altro che casuale che il giro di affari di Amazon sia superato dalla cinese Alibaba, che il cinese Baidu sia l’unico a sfidare i motori di ricerca americani, che il russo Telegram competa con i social network statunitensi.
2.Venendo al cuore della questione, ossia l’origine della stagnazione della produttività, Draghi sceglie di rimanere sostanzialmente all’ interno dell’ottica dell’impresa, assumendo la prospettiva dell’offerta come cifra esclusiva della sua proposta. Il Rapporto si apre indicando di punto in bianco l’intelligenza artificiale, l’energia intesa come decarbonizzazione e la tecnologia digitale come componente essenziale dell’industria della difesa, come “tre aree di intervento per rilanciare la crescita”. Manca il quadro di riferimento macroeconomico all’interno del quale si pensa che la ripresa della produttività debba avvenire. Da qui un contrasto che pervade tutto il testo: da un lato l’affermazione giustamente allarmata che in discussione sia il mantenimento stesso dei risultati storici conseguiti, dall’altro il suggerimento di rimedi volti esclusivamente a migliorare l’efficienza tecnologica vista come una sorta di dato esogeno rispetto al sistema economico.
Non si capisce la caduta della produttività che si sviluppa ininterrottamente in Europa nel corso dell’ultimo trentennio se non si pone al centro la contrazione della domanda aggregata (consumi + investimenti) quale avanza lungo due direttrici: a) una progressiva riduzione della massa salariale come risultato di un attacco frontale alla forza di contrattazione del lavoro, che prende corpo all’inizio degli anni Ottanta per proseguire poi anche attraverso una legislazione rivolta esplicitamente ad incentivare la precarizzazione. La mancanza di qualsiasi pressione del salario sul profitto che ne è scaturita ha cancellato uno dei più importanti incentivi al progresso tecnologico (come aveva argomentato Nicholas Kaldor già negli anni Cinquanta esponendo il suo modello di crescita); b) la crescente diminuzione degli investimenti pubblici causata dal libero movimento dei capitali che toglie agli stati nazionali il controllo dei flussi finanziari e quindi del debito. Il fenomeno è istituzionalizzato da Maastricht che stabilisce un rapporto obbligato tra debito e Pil mentre la missione fondamentale della Bce, a differenza della Fed americana, non è la crescita economica, ma la lotta all’inflazione. L’obiettivo della stabilità, frutto in questo caso di un’autonoma volontà europea, è stato raggiunto, ma pagando il prezzo della stagnazione e della retrocessione dei sistemi di stato sociale.
La grande dimensione della impresa americana, con relativa capacità di ricerca scientifica e innovazione tecnologica, che il Rapporto sprona ad imitare, nasce storicamente, lo abbiamo appreso tutti nei grandi studi sulla “mano visibile” di Alfred Chandler (The Visible Hand. The Managerial Revolution in American Businnes, 1977) in un contesto simmetricamente opposto a quello europeo, ossia a partire dall’esistenza di una profonda simbiosi con mercati ininterrottamente crescenti, prima sul piano nazionale e poi su quello internazionale. In un quadro macroeconomico caratterizzato da politiche keynesiane di sostegno alla domanda, allora consentanee con la volontà politica di Washington, anche la piccola Europa uscita distrutta in ogni senso dalla seconda guerra mondiale, già all’inizio degli anni Sessanta si dimostrò competitiva con quella americana sul terreno allora strategico dei beni di consumo durevole.
La crisi finanziaria del 2008 rappresentò un grande avvertimento pervicacemente ignorato dall’Europa. Il carattere sempre più speculativo degli strumenti finanziari che fu all’origine della crisi, nasceva dal tentativo di mantenere il boom edilizio facendo dell’indebitamento privato la risposta ad un deficit di domanda causato dalla restrizione del potere d’acquisto dei ceti meno abbienti. In questo senso Paul Krugman, non ancora tornato all’ovile, poteva affermare: “Per la prima volta da due generazioni la scarsità della domanda – ossia una spesa privata non sufficiente a sfruttare la capacità produttiva che abbiamo a disposizione – è ormai divenuta un chiaro ostacolo al benessere di gran parte del mondo”. Ancora lì stiamo e da lì bisogna avere il coraggio di ripartire se si vuole aprire una discussione sul futuro del nostro continente.
Del resto sembra che la cultura economica mainstream non riesca ancora a realizzare che la sconfitta subita dall’insieme della economia occidentale nel processo di globalizzazione, con ripiegamenti su posizioni esplicitamente protezioniste, ha la sua origine principale nella debolezza propulsiva del modello liberista. Non è stato retto il confronto con modelli fortemente dirigisti vigenti in “altre” parti del mondo, capaci di garantire un alto flusso di investimenti indirizzati con criteri strategici nei settori volta a volta più idonei a realizzare aumenti impetuosi della produttività e della competitività.
L’economia europea era- fino all’inizio della guerra russo-ucraina- ben rappresentata da quella tedesca caratterizzata da un basso contenuto della domanda interna controbilanciato da un volume abnorme delle esportazioni pari al 50% del Pil. È stato questo il modello che si è voluto imporre a tutto il continente provocando in contesti più fragili, il nostro paese ne ha fatto diretta esperienza, restrizione ingiustificata della base produttiva e polverizzazione del sistema delle imprese. Qui deve essere ricercata l’origine prima di quella crescente diseguaglianza sociale che Draghi paventa, ma che invece di essere una temibile prospettiva futura è una realtà già consolidata
Insufficienza della domanda aggregata, dovuta sia alla contrazione del volume della massa salariale che alla progressiva diminuzione dell’investimento pubblico, e produttività decrescente, sono insomma legati tra loro in un nesso indissolubile che è indispensabile cogliere se si vuole delineare lo spazio di una riflessione di lungo periodo e aprire il dibattito sul futuro sempre più incerto della nostra vecchia Europa.
Maastricht è però anche, in quanto realizzazione effettiva della utopia reazionaria del mercato autoregolato, istituzione della governance secondo regole precostituite e liquidazione radicale della politica, senza la quale non si vede come possa essere affrontato, ad esempio, quel problema della decarbonizzazione su cui il rapporto si sofferma a lungo. Ormai è chiaro che nessuna industria automobilistica europea (inclusa Volkswagen con i suoi milioni di vetture vendute in tutto il mondo) è in grado da sola di produrre un’auto elettrica. C’è in primo luogo un problema di reperimento di materie prime estremamente rare come il litio che non può essere prerogativa delle imprese. Ma c’è anche un problema di progettualità comune, di cooperazione politica tra culture, esperienze e saperi nazionali- quella pluralità che ha fatto la forza dell’Europa, di cui Maastricht vieta persino la menzione.
Sorge allora la domanda: che senso ha in una situazione in cui la nuova Commissione lavora già per ristabilire il patto di stabilità con l’impegno alacre dei cani da guardia lettoni e olandesi, richiedere, come fa Draghi, un nuovo piano Marshall, la creazione di eurobond, la istituzione di un fondo di investimenti comuni? Buoni pensieri, che scollegati da un’analisi critica della realtà della Ue diventano pura autopromozione, demagogia intellettuale e politica.
L’aumento delle tensioni internazionali, allora, ben lungi dall’aumentare lo spazio di un protagonismo europeo (si pensi alla affermazione di una nuova improrogabile necessità di una difesa UE) accentua visibilmente la dipendenza e la subalternità del vecchio continente quale si è storicamente determinata con i risultati della seconda guerra mondiale. Da due anni la politica estera della UE è annunciata nei briefing del segretario della Nato e ripetuta con convinta enfasi dai presidenti della Commissione e del Consiglio europei. Le idee contenute nel Rapporto di Draghi sono insomma diventate la linea della nuova Commissione von der Leyen.