Il Rapporto Draghi, la competitività, la politica (seconda parte)
3. Nella prima parte di questo articolo abbiamo voluto evidenziare gli effetti negativi che una prolungata compressione della domanda interna, quale implicita negli accordi di Maastricht, provoca sulla crescita della produttività europea.
In questa seconda parte intendiamo soffermarci sugli effetti catastrofici che la guerra ai confini della Federazione russa provoca per l’economia del nostro continente. Aspetto anche questo ignorato dal Rapporto Draghi.
Non è questa la sede per discutere delle responsabilità della guerra. Sono le conseguenze che non posso restare inevase. Il Rapporto non può fare a meno di menzionare laconicamente la sparizione del gas russo. Ma il problema va visto in tutta la sua complessità.
E’ stato un grande errore strategico della cultura liberista la incomprensione della resilienza della Federazione russa alle sanzioni. Il blocco posto all’importazione delle tecnologie e all’esportazione dei prodotti energetici, l’esclusione dai circuiti bancari, il sequestro degli assets, la business retreat delle imprese occidentali operanti in Russia si sono risolti in un aumento del PIL del paese. Antonio Gramsci diceva dinanzi al fascismo nascente: “conoscere il nemico per combatterlo meglio”. Ebbene, la cultura del mercato, abituata a pensare solo in termini quantitativi, non riesce mai a comprendere e valutare le variabili storiche e politiche che immettono energie “sociali” non calcolabili: in questo caso la pronta reazione patriottica dell’opinione pubblica nazionale, o l’ampiezza delle relazioni internazionali di solidarietà di cui la Russia si è potuta avvalere nel grande e spesso ignoto mondo extra occidentale.
Del resto già nel settembre del 2014 (l’anno in cui con il colpo di stato Euromaidan e l’occupazione russa della Crimea le tensioni di confine tracimano in scontro militare aperto) la Federazione russa adottava con la legge 488 un piano di riconversione industriale volto a ridurre la propria dipendenza dall’occidente e ad aumentare l’interscambio con la Cina.
Si potrebbe aggiungere che la mancata previsione della resilienza russa è un esempio particolare della incapacità di comprendere la tenace resistenza che i grandi nazionalismi non occidentali esercitano ora (è questa la importante tesi critica del politologo americano John Mearsheimer) ed eserciteranno ancora in futuro verso l’attuazione del progetto unipolare Usa.
James Kenneth Galbraith, figlio del più noto John, ha parlato di un “regalo delle sanzioni” (Gift of Sanctions). Di contro il decano degli economisti tedeschi Hans Werner Sinn, una delle poche voci fuori dal coro, ha parlato dell’embargo alla Russia come di una “trappola”. La crisi in cui versa oggi l’economia tedesca ha posto fine a ogni discussione. Ma la cultura economica tedesca ha impiegato molto tempo per realizzare la profondità del vulnus inferto al paese, reso plasticamente evidente dal sabotaggio dei due gasdotti. Si è intrattenuta anzi per mesi con l’idea che la guerra avesse creato nuove possibilità, mentre nella cultura anglosassone si è parlato a lungo della Germania, come “malato d’Europa”, con un evidente compiacimento per la cattiva sorte di un modello organizzativo sentito come irriducibilmente diverso. Persino il recente volume che la rivista Limes ha dedicato al problema, La Germania senza qualità, sembra non realizzare appieno la profondità e l’estensione della cesura che la guerra ha introdotto nella vita dell’economia tedesca ed europea.
Abbiamo già ricordato il limite profondo del modello tedesco e del condizionamento sull’insieme della economia europea che esso ha esercitato. E tuttavia non si può nemmeno dimenticare che nel contesto di mercato autoregolato imposto da Maastricht, che esclude preventivamente qualsiasi politica di domanda, un alto flusso di esportazioni è l’unico modo per garantire crescita economica. Colpire la competitività delle esportazioni e ridurre drasticamente i suoi spazi di mercato ha significato nella situazione attuale mettere a rischio l’insieme della economia tedesca, insostituibile centro di raccordo di quella europea, toccandola nel suo punto più debole.
A questo proposito stupisce come il Rapporto, che focalizza esclusivamente sulla relazione tra economia UE e economia Usa, non faccia nemmeno parola della Cina, che in virtù della sua economia a differenza di quella Usa prevalentemente manifatturiera, rappresenta il nostro più temibile competitore. Per noi europei, a cui non è dato schierare portaerei nei mari del Pacifico, il confronto con la Cina può essere affrontato e risolto solo in termini di struttura produttiva. L’indebolimento della forza competitiva dell’economia europea provocata dalla guerra deve dunque essere visto anche alla luce dei grandi rischi impliciti in un duello commerciale aperto almeno da un ventennio.
Conclusa la fase della subfornitura la Cina investe ormai massicce risorse in ricerca e sviluppo, e laurea annualmente un milione di ingegneri, oltre tre volte quelli che si laureano in Usa (circa 300mila) e più di quindici volte quelli che si laureano in Germania (circa 60 mila). L’Europa ha già ceduto alla Cina la leadership nelle tecnologie delle energie pulite (fotovoltaico e eolico), nei droni ad uso civile, nella produzione di acciaio, alluminio e rame, nella cantieristica, nelle auto elettriche, negli smartphone, ecc. E’ un ritmo di crescita che crea per l’Europa il rischio di passare da una posizione di fornitore e partner ad una di follower.
L’assenza di materie prime e il calo demografico (che tocca certamente anche la Russia e la Cina) sono due fattori strutturali che rendono ancora più fragile la competitività della manifattura europea.
La guerra sta tuttavia colpendo anche la dimensione politica dell’Unione. L’aumento del senso di precarietà e di incertezza sul futuro rende sempre più attraente l’agenda demagogica del populismo di destra che si espande a macchia d’olio rendendo sempre più complicata e incerta la vita dell’Unione ostinatamente ferma al principio della unanimità nelle votazioni. In particolare è entrato definitivamente in crisi l’asse franco-tedesco che per decenni ha rappresentato una garanzia di continuità ordinata del processo europeo. E’ venuta meno quella divisione di poteri per cui la Germania curava in modo particolare la sua presenza nell’Europa orientale e la Francia nel Mediterraneo. La fine improvvisa del modello economico tedesco sta determinando una vistosa delegittimazione della direzione politica del paese. Lo stesso fenomeno si presenta in Francia, dove è invece la protesta sociale creata dalla politica di austerità che ha fatto saltare il compromesso moderato di Macron, con effetti che si riverberano ora sullo stesso funzionamento istituzionale della V Repubblica.
In questa situazione il pervicace perseguimento Usa di una politica muscolare di potenza, con la creazione di una nuova cortina di ferro che oltre la Russia coinvolge tutto il mondo non occidentale, si traduce in un gioco al massacro dei più vitali interessi economici dell’Europa, strutturalmente bisognosa di interlocuzione e coesistenza, e accelera la crisi dei sistemi democratici già messi a dura prova dalla austerità di Maastricht. Gli Stati Uniti, che sono stati dopo la seconda guerra mondiale un fattore essenziale della trasformazione della economia e della società europea, sembrano oggi remare alacremente in direzione contraria ai più fondamentali interessi del suo principale alleato.
4. La mancata analisi degli effetti economici e politici della guerra si riflette negativamente nel modo in cui viene impostato il problema della difesa europea cui il rapporto dedica ampio spazio. In proposito bisogna distinguere l’aspetto politico dall’aspetto economico. Per quanto riguarda il primo, il Rapporto riecheggia il tema diffuso di un presunto nuovo protagonismo militare europeo che la guerra dovrebbe suscitare, aprendo imprecisati nuovi spazi alla iniziativa Ue. Dal 1949, la difesa europea è saldamente garantita dalla Nato, alleanza militare sorta per fronteggiare la minaccia rappresentata dalla Unione sovietica, ma che proprio dopo la sua sparizione ha conosciuto uno sviluppo impetuoso sia come reclutamento di sempre nuovi paesi sia come estensione del sistema delle basi militari. Solo per fare un esempio, al bombardamento Nato di Belgrado del 1999 fece immediatamente seguito la costruzione in Kossovo di quella che è oggi la più grande base militare in Europa, la cui sola presenza ha trasformato i Balcani in un luogo ad alta sensibilità strategico- militare.
Quello che allora la nuova situazione geopolitica creata dalla guerra ci chiede (lo ha detto più volte Trump, che è forse improprio pensare come un isolazionista) è un aumento del contributo che l’Europa deve versare agli Usa per la propria protezione, inevitabilmente tanto più costosa quanto più aspro sarà il livello dello scontro internazionale. E’ quello che stiamo già ampiamente facendo decurtando ulteriormente i bilanci pubblici già resi magri dalla politica di austerità.
L’aumento delle tensioni internazionali, allora, ben lungi dall’aumentare lo spazio di un protagonismo europeo (si pensi alla affermazione di una nuova improrogabile necessità di una difesa UE) accentua visibilmente la dipendenza e la subalternità del vecchio continente quale si è storicamente determinata con i risultati della seconda guerra mondiale. Da due anni la politica estera della UE è annunciata nei briefing del segretario della Nato e ripetuta con convinta enfasi dai presidenti della Commissione e del Consiglio europei.
Per quanto riguarda l’aspetto economico è indubbio che la spesa militare, che non è acquisto di armi progettate e costruite altrove, è sempre foriera di progresso tecnologico. L’intelligenza artificiale fa la sua prima apparizione con la cibernetica nella industria bellica della seconda guerra mondiale. Internet nasce come Arpanet alla fine degli anni Settanta come circuito di comunicazione alternativo nel caso di attacco atomico. Per non parlare della bomba atomica. Ma per tutto questo ci vogliono i grandi investimenti pubblici, ci vuole la vecchia onnipotenza dello stato, così caduta in disuso nella retorica politica liberista, ma non per questo venuta meno nella prassi dei grandi Leviatani che decidono delle sorti del mondo. Nemmeno le grandi imprese americane sarebbero capaci di progresso tecnologico senza il continuo input del bilancio e della ricerca federale.
Rimane allora da considerare la spesa per armi come componente della domanda effettiva, che è quanto Draghi propone quando afferma: “L’industria della difesa necessita di investimenti massicci per recuperare il ritardo. Come riferimento se tutti gli stati membri dell’UE che sono membri della NATO e che non hanno ancora raggiunto l’obbiettivo del 2% lo facessero nel 2024, la spesa per la difesa aumenterebbe di 60 miliardi euro”. Figuriamoci, aggiungeremmo noi, se andasse avanti la proposta di arrivare al 5% del PIL, come richiesto da Trump! Indubbiamente lo sviluppo Usa si è intrecciato strettamente per anni con la continua produzione di armi richiesta dalla prassi della deterrenza che ha guidato tutta la guerra fredda. La spesa per armi è in effetti una componente eccezionalmente dinamica della domanda per la sua continua ripetibilità dovuta alla rapida obsolescenza tecnologica e alla necessaria reintegrazione del materiale distrutto.
Ma ancora una volta torna il carattere decisivo del quadro macroeconomico di riferimento. La spesa militare è inserita nella cornice di Maastricht ed è quindi soggetta ad uno stringente vincolo di pareggio dei conti pubblici anche se pare che la tradizionale avversità della Germania e dei paesi frugali potrebbe sbloccarsi con la emissione di un grande prestito europeo destinato a finanziare il riarmo della UE.
In assenza di una autonomia strategica militare europea, e quindi anche di una politica industriale che pianifichi (come negli Usa o in Cina) le ricadute delle tecnologie militari sulle applicazioni industriali, quali effetti avrebbe questo straordinario programma per il riarmo? Probabilmente solo quello di generare una gigantesca domanda per i sistemi d’arma americani, e in minima parte per quella dei pochi paesi europei (Germania in primis) dotati di alcune tecnologie di punta. La mobilitazione di risorse finanziarie europee a favore delle importazioni contribuirebbe a deprimere ulteriormente la domanda interna.
5. Detto tutto questo, il Rapporto Draghi rappresenta una provocazione e una sfida per tutte le forze che in Italia e in Europa si oppongono allo stato di cose esistente. La lunga campagna elettorale per le elezioni europee è stata una somma di dibattiti nazionali privi di qualsiasi comunicazione.
Draghi cerca di disegnare a suo modo i confini di un interesse strategico europeo e indica nel rapporto con gli Usa un termine di confronto ineludibile. Lo fa assumendo come irreversibile lo stato di guerra che si è determinato in Europa orientale e Medio Oriente, che gli Stati uniti hanno voluto almeno fino ad oggi protrarre e legittimare con il profluvio delle loro armi. A noi tocca contro argomentare che proprio l’esperienza del passato sta a dire che le vie dello sviluppo sono quelle della pace e dell’interscambio economico con il maggior numero possibile di paesi, che le risorse create dalle armi sono infinitamente minori e più aleatorie di quelle che possono scaturire dalla soddisfazione dei bisogni più elementari dell’umanità, dalla costruzione di ospedali e di scuole, all’aumento della nostra ricerca scientifica, al miglioramento del livello professionale della nostra forza lavoro.
I vuoti di analisi del rapporto che abbiamo cercato di mettere in evidenza, e quindi la fragilità delle alternative che esso intende prospettare, ricordano ancora una volta che l’unica opzione possibile è quella di riaprire il discorso su Maastricht, prendendo nello stesso tempo piena coscienza dei disastri creati in economia e in politica dall’azzeramento di ogni potere contrattuale del lavoro. In questo quadro, è interessante rilevare come le ultime esternazioni parigine di Mario Draghi – tese a sottolineare la necessità di riscoprire il ruolo centrale della domanda interna (a discapito delle esportazioni quale unico o prevalente motore della crescita), ma anche quello di un livello salariale non compresso fino all’esasperazione in nome della competitività esterna – sembrino, in parte, allinearsi alle posizioni espresse da chi ha messo in evidenza criticità e omissioni all’interno del suo Rapporto.