IL RITORNO A UN’ ECONOMIA UMANISTICA: E’ ANCORA POSSIBILE?
Come si evince dal Rapporto BES elaborato dall’ISTAT nell’aprile del 2024 volto a misurare il livello di Benessere Equo e Sostenibile in Italia, nel 2021, 18,3 persone di 20-29 anni ogni 1.000 hanno ottenuto una laurea nelle discipline STEM (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica), in aumento rispetto al 2020 (16,5 ogni 1.000) e anche rispetto al 2019 (16,1 ogni 1.000).
L’aumento della quota dei laureati STEM (comunque non omogeneo per genere: tra il 2021 e il 2023 per i maschi la quota è cresciuta dal 33,7% al 37% mentre per le donne è lievemente diminuita: dal 17,6% al 16,8%) è considerato un successo, un obiettivo di politica economica da conseguire data la crescente domanda di competenze specialistiche, spesso non reperibili all’interno del mercato del lavoro, da parte di molte imprese coinvolte nei vari processi di transizione digitale. Le discipline STEM hanno e, soprattutto, avranno un ruolo sempre più rilevante; indicative al riguardo le Linee guida emanate dal Ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, il 24 ottobre 2023: “grazie alle risorse del PNRR, le istituzioni scolastiche hanno la possibilità di organizzare percorsi formativi per i docenti sull’utilizzo delle metodologie didattiche innovative per l’apprendimento delle STEM, anche basate su percorsi “immersivi”, centrati su simulazioni in spazi laboratoriali innovativi. Bisogna superare l’idea secondo cui le STEM sono solo per pochi: se si forniscono gli strumenti per conoscerle, tutti possono comprenderle e apprezzarle”.
Il crescente numero dei laureati in discipline STEM è accompagnato da una relativa stabilizzazione del numero dei laureati in discipline umanistiche nel biennio 2020-2021 (tale quota rimane però elevata: 58,1 persone di 20-29 anni ogni 1.000 in discipline non STEM di cui 76,8 tra le donne e 40,9 tra gli uomini) e dal ridotto ruolo di molte materie “letterarie” all’interno dei corsi di insegnamento delle discipline tecniche tra cui, come vedremo, l’economia politica.
Cerchiamo di analizzare più approfonditamente questi due distinti aspetti. Concordemente con Federico Sciarretta (C’è ancora spazio per gli umanisti? Punti critici e potenzialità degli studi umanistici in Italia, Gazzetta filosofica, Luglio 2022), la crescente importanza attribuita alla laurea nelle discipline STEM è andata a discapito delle lauree in materie umanistiche considerate quasi un privilegio perché non “spendibili” nel mercato del lavoro. Di conseguenza, le facoltà umanistiche in Italia stanno declinando inesorabilmente sotto il profilo finanziario e culturale, affossate da anni di tagli e ridimensionamenti mentre al Liceo si sta assistendo alla demolizione progressiva del latino e di altre importanti materie quali la storia e la geografia. Al riguardo, è da accogliere positivamente la recente riforma del Ministro dell’Istruzione e del Merito, che sarà ufficializzata entro il mese di marzo del corrente anno per entrare in vigore nell’anno scolastico 2026-2027, che prevede il ritorno del latino nelle scuole medie (anche se opzionale, con un’ora a settimana a partire dal secondo anno) e intende abbandonare l’approccio della geostoria per separare nuovamente lo studio della storia e della geografia, riportando quest’ultima su temi ambientali e territoriali.
Nel contempo, si è assistivo a un progressivo abbandono delle materie umanistiche all’interno dei corsi di insegnamento delle discipline tecniche. “Meno lineari delle scienze applicate, (le materie umanistiche) costituiscono un elemento di rottura, abituano alla complessità, favoriscono la comprensione della psiche di un popolo. La conoscenza storica dovrebbe permettere di guardarsi e guardare gli altri con occhi differenti, senza escludere ciò che è fuori dai propri valori.” (M. Vino, Quando abbiamo smesso di studiare storia, Domino, n.8, agosto 2024). In sintesi, le discipline umanistiche possono contribuire a ricomporre, ridimensionare e ridefinire ciò che è stato dato per scontato, chiaro, lineare o “intoccabile” nonché spingere ad alimentare un pensiero critico e acquisire uno stock di conoscenze utili a “leggere” e comprendere la complessità del presente. Tutto questo dovrebbe certamente essere affiancato da abilità e competenze tecniche; come sottolineato da Paolo Boccardelli (L’Università è pronta a superare i paradossi dell’intelligenza artificiale, Il Sole 24 Ore, 13 dicembre 2024), “per formare leader dotati di capacità collaborative è necessario rafforzare le discipline umanistiche, promuovendo una cultura non solo tecnocratica, ma estesa alle personal e soft skills.” Una più diffusa ed elevata cultura umanistica può contribuire, in realtà, a formare non solo leader con capacità collaborative ma anche cittadini migliori, più critici, responsabili e consapevoli del ruolo svolto all’interno della società e delle conseguenze delle proprie azioni sugli altri.
Le nostre riflessioni ci spingono a suggerire che l’acronimo STEM dovrebbe essere sostituito dall’acronimo STE(A)M dove A indica Arte, volto a esprimere il complesso delle discipline umanistiche. All’interno di questo acronimo, come si colloca l’economia? Tra le discipline tecniche o tra quelle umanistiche? Molti strumenti tecnici (matematica, statistica, econometria) non possono certo essere abbandonati dall’economista ma, soprattutto negli ultimi due-tre decenni, l’approccio tecnico ha occupato uno spazio via via crescente sia riguardo ai corsi di insegnamento che al numero di pubblicazioni scientifiche. Sono così scomparsi dalle lezioni universitarie di economia e politica economica, oppure hanno un ruolo marginale, corsi finalizzati a sviluppare riflessioni critiche sull’evoluzione del contesto storico e sulle varie teorie economiche.
A nostro parere l’insegnamento dell’economia politica nelle Università dovrebbe includere obbligatoriamente la storia economica e del pensiero economico: “In Italia, come a livello internazionale, si assiste alla progressiva scomparsa della storia nella formazione dell’economista. Scompare dai requisiti della formazione perfino l’introduzione alla storia delle idee economiche; si diluisce la conoscenza degli eventi economici nel tempo: i regimi monetari, le fasi dello sviluppo, le crisi finanziarie, l’innovazione tecnologica, l’evoluzione delle politiche economiche.” (B. Ingrao, Perché la storia, Menabò, 2017). E, ancora, si chiede la stessa autrice, “qual è il significato della storia economica per l’economista contemporaneo impegnato prioritariamente nella costruzione di modelli matematici e nella verifica econometrica? E’ l’educazione alla comprensione della complessità nell’economia e specificamente nella rete globale dei mercati. La capacità di vedere la complessità, che è portata dalla conoscenza storica, affina il giudizio dell’economista come teorico, come econometrico, come protagonista delle scelte di politica economica”.
Inoltre, di cruciale importanza per l’economista è la conoscenza delle varie scuole di pensiero economico; in particolar modo, “nella ricerca la storia del pensiero illumina in modo appassionante la logica delle idee nel loro sviluppo, per chiarire punti morti o irrisolti, tracce di ricerca feconde ma parzialmente sviluppate, nessi con la storia economica, i fili rossi delle idee che legano presente e passato, illuminando criticamente l’approdo della teoria contemporanea. Nella politica economica, il dibattito delle idee è cruciale per mettere a fuoco i compiti, che ne devono essere l’oggetto” (B. Ingrao, articolo citato).
Per rimanere al nostro Paese (non considerando quindi l’immensa schiera di economisti stranieri che hanno lasciato un’eredità fondamentale negli ultimi due secoli), quanti degli attuali studenti di economia politica conoscono gli articoli di economisti italiani che venivano studiati e approfonditi negli anni settanta e ottanta? Mi riferisco ai vari Federico Caffè, Giorgio Fuà, Paolo Sylos Labini, Giacomo Becattini, Augusto Graziani, Claudio Napoleoni, Luigi Pasinetti (con la certezza di averne omessi molti altri di grande rilevanza). Articoli scritti in un italiano elegante, ancora attuali, pieni di riferimenti storici e teorici, di riflessioni dove si avvertiva un reale desiderio di arrivare alla verità, una tensione a conoscere i reali bisogni (sia materiali che immateriali) dell’uomo al fine di suggerire le soluzioni più appropriate di politica economica per superare le crescenti diseguaglianze economiche, sociali e la povertà dilagante. Ora, invece, gli aspiranti accademici, spinti dal mantra publish or perish, scrivono quasi solo in lingua inglese con la finalità di pubblicare in Riviste internazionali di fascia A, articoli contenenti più o meno sofisticate formalizzazioni matematiche e analisi econometriche
Fortunatamente, il recente conferimento del Premio Nobel per l’economia 2024 a Daron Acemoglu, Simon Johnson e James A. Robinson per i loro “studi sulla formazione delle istituzioni e la loro influenza sulla prosperità” nei vari Paesi sembrerebbe, almeno parzialmente, rivalutare l’importanza del contesto storico. Politica e storia: avere portato queste due dimensioni al centro dell’analisi economica, combinando rigore e creatività metodologica, è emerso come il vero motivo dell’assegnazione del premio Nobel. In particolar modo, i tre economisti, nel cercare di approfondire temi d’importanza fondamentale per le società primarie, si sono avvalsi dell’evidenza storica risalendo ai secoli passati. Ad esempio, nel loro principale contributo hanno cercato di misurare empiricamente l’impatto che le istituzioni importate dai Paesi europei nelle colonie in America, Africa e Asia hanno avuto sulle diseguaglianze in termini di reddito pro capite, esistenti ancora oggi. La “riscoperta” della storia da parte di Acemoglu e dei suoi colleghi non è esente da alcune critiche tra cui una non sufficiente attenzione ai problemi di carattere strutturale, ignorando i quali l’integrazione delle istituzioni (o della storia stessa) rischia di rimanere un esercizio poco fertile o, peggio, di sdoganare un’implicita visione colonialista dello sviluppo economico. Al di là delle critiche (che rappresentano, comunque, un ingrediente fondamentale nel campo della ricerca), un altro merito dei tre economisti è avere sempre cercato di diffondere i risultati dei propri studi rivolgendosi a un pubblico più ampio, ben oltre i confini della comunità scientifica e accademica all’interno della quale molti studiosi vivono, spesso arroccati in una “torre d’avorio” nella quale la conoscenza tecnica, spesso complessa, rischia di essere fine a sé stessa e comprensibile solamente a “pochi eletti”.
In sintesi, l’auspicio è che l’economia, pur continuando ad utilizzare i vari strumenti tecnici esistenti, riconosca un ruolo crescente alla componente umanistica e quindi metta al centro dell’analisi l’uomo e la società nel suo complesso, curando di definire bene il contesto storico e il paradigma teorico così da poter individuare i principali “bisogni” e individuare, di conseguenza, le più appropriate misure di politica economica.