Il servizio sanitario nazionale: l’importanza di tornare alle origini
Le risorse sono oggi spesso al centro della discussione sul Servizio Sanitario Nazionale. La premier Meloni afferma che il suo governo ha destinato al Fondo sanitario più soldi in assoluto rispetto a qualsiasi altro governo. Per il 2025, la dotazione è di 136,5 miliardi, di cui 1.5 miliardi già assegnati dalla legge di bilancio per il 2024 e gli altri dalla legge di bilancio per il 2025. Di converso, la segretaria del PD Schlein lamenta l’esiguità del finanziamento, domandando, anche attraverso la proposta di legge presentata il 26 febbraio 2024, un incremento graduale del finanziamento fino a garantire un valore minimo del 7.5% del PIL.
Portare l’attenzione sulle risorse è fondamentale. Far vivere il Servizio Sanitario Nazionale richiede iniezioni di risorse rispetto a quelle oggi assegnate. I valori assoluti citati dalla premier, sono, peraltro, in termini nominali, non tengono, cioè, conto dell’inflazione. Se se ne tenesse conto e il calcolo fosse fatto a prezzi costanti (del 2000 il finanziamento del SSN per il 2024 sarebbe addirittura più basso, seppure di poco, a quello del 2010 (83 contro 85 miliardi), nonostante in termini assoluti non si sia mai speso tanto. Considerando il rapporto fra spesa per il SSN e PIL, l’Italia è oggi al 6, 2%, quando il rapporto è 8,9% in Gran Bretagna e 10,1% in Germania e Francia. Le previsioni del Piano Strutturale di Bilancio indicano una discesa al 6% al 2026 per arrivare al 5,6% nel 2030. L’andamento del rapporto fra spesa e Pil resta, però, influenzato dalla dinamica del PIL. Ad esempio, nel 2020, il rapporto spesa SSN/PIL era salito a 7,4% a causa soprattutto della riduzione del PIL dovuta al lockdown e non all’aumento della spesa che è avvenuto, ma è stato uno dei più bassi fra i paesi OCSE. Considerando, inoltre, la spesa pro capite in termini reali, il valore in euro a parità di potere d’acquisto (la base sono i prezzi 2015) è pari 3254.6 in Gran Bretagna, 3672.7 in Francia, 4373.5 in Germania e 2379.1 in Italia. Nel 2019 il Pil pro-capite in Italia era l’80,2% di quello della Germania (e il 90,8% di quello della Francia) ma la nostra spesa sanitaria pro-capite era il 72,8% di quella tedesca (e il 66,8% di quella francese).
Il problema non è nuovo. Veniamo da anni di inadeguatezze nel finanziamento. Basti pensare all’introduzione, nel 2005, dei tetti di spesa per il personale del SSN da parte del terzo governo Berlusconi (Ministro della Salute era Francesco Storace), solo in parte soppressi nel 2019. Tale misura ha bloccato le assunzioni per il SSN e, come se non bastasse, è stata accompagnata anche da una riduzione in termini reali delle retribuzioni (sul tema, cfr. Marco Geddes da Filicaia). Oppure, pensiamo al Documento di Economia e Finanza per il 2022 (Governo Draghi, Ministro della Salute Roberto Speranza), che prevedeva anch’esso un rapporto fra spesa per il SSN e PIL in discesa: 6,2% nel 2026 (solo 0,2% in più degli obiettivi del governo Meloni). Istituzioni alimentate non a sufficienza non possono reggere per sempre. “Affamare la bestia” alla fine conduce alla privatizzazione.
Certo, il PIL pro capite del nostro paese è più basso di quello degli altri paesi sopra indicati (nonché del PIL pro capite medio della UE) e i vincoli di bilancio contano. Il Patto di Stabilità e Crescita impone all’Italia una riduzione del rapporto debito/PIL pari all’1% all’anno e, entro questi vincoli, il Piano Strutturale di Bilancio già permette al SSN un incremento di spesa superiore all’1,5% applicato al complesso della spesa primaria. Ma, ciò non toglie, da un lato, che il finanziamento previsto per il SSN ne renda impossibile il mantenimento e, dall’altro, che il dissennato obiettivo di ridurre sempre e comunque il prelievo fiscale sia una via obbligata.
Ciò riconosciuto, serve anche una riflessione profonda sulle modalità di funzionamento del SSN. Un servizio sanitario nazionale non è la mera eliminazione delle barriere all’accesso dovute alla disponibilità a pagare, in un quadro di erogazione delle cure che poi nei fatti mima il mercato. È un servizio dedito alla produzione del valore intrinseco della salute e alla uguale responsabilità a promuovere la salute di tutti e tutte, in un quadro di uguaglianza di considerazione e rispetto. Questi erano gli ideali che hanno mosso la costruzione dei Servizi sanitari nazionali e questi ideali vanno fatti rivivere.
Il bel e utile libro di Chiara Giorgi, Salute per tutti (Laterza, 2024) è un compagno prezioso per riportarci con forza di fronte a quegli ideali. Partendo da un inevitabile rimando all’esperienza della Gran Bretagna del piano Beveridge, Giorgi ci re-introduce nel fertile e variegato panorama degli anni 60 e 70 in cui un gran numero di soggetti individuali e collettivi si sono impegnati a dare realizzazione al “il diritto universale della vita in buona salute” quale obiettivo della sanità pubblica, nella consapevolezza della distinzione fra salute e sanità; della centralità della prevenzione ambientale contro la medicalizzazione; dell’importanza della voce, del diritto di dire la propria, della partecipazione e dell’educazione sanitaria.
Fra i soggetti individuali ricordati da Giorgi, spicca Giovanni Berlinguer, ideatore, insieme a un ampio numero di altri studiosi, dello Schema di Piano Sanitario Nazionale 1964-78. Le idee di tale Schema divennero parte del Piano Giolitti e, ancor prima, influenzarono i contributi alla programmazione economica di Giorgio Fuà e Paolo Sylos Labini. Esse collegavano strettamente salute ed economia, con una precisa gerarchia. “Poiché il fine essenziale della programmazione economica è il miglioramento di vita della popolazione, il raggiungimento dell’optimum di salute deve essere considerato il traguardo da raggiungere”, facendo prevalere la dimensione umana su quella produttivistica. A tale fine, come sintetizza Giorgi “si trattava di superare il sistema mutualistico, assumendo una concezione della politica sanitaria come unità di prevenzione, cura, recupero e riabilitazione, coordinandola con altri aspetti della programmazione: la pianificazione urbanistica, la riforma dell’istruzione, l’organizzazione della ricerca scientifica, la riforma del sistema tributario”.
Peraltro, come ricorda Giorgi, Adriano Olivetti già dal 43, aveva avviato la realizzazione di un centro di Psicologia del Lavoro, affidato niente di meno che a Cesare Musatti.
Fra i soggetti collettivi, spiccano nel libro i tanti gruppi, da Mirafiori a Settimo, da Castellanza a Marghera, costituiti da operai, sindacato e tecnici (fra cui Ivar Oddone e Gastone Marri sostenuti, fra gli altri, da Vittorio Foa e da Giulio Maccacaro) che hanno dato vita negli anni 60 e 70 a potenti esperienze di contrasto della nocività in fabbrica, unendo prevenzione, partecipazione (non delega), formazione. Particolarmente interessanti nel libro di Giorgi sono i riferimenti alla ricerca di un nuovo linguaggio comune a operai, sindacalisti, medici e psicologi in grado di rendere possibile la comunicazione delle scoperte scientifiche da parte dei tecnici nei confronti della classe operaia o quelle sulla centralità delle istituzioni pubbliche di ricerca e di una nuova formazione medica. E spiccano i tanti movimenti delle donne così cruciali ai fini della legislazione sui consultori e sull’aborto.
Al contempo, Giorgi mette anche in evidenza le numerose deviazioni, le retromarce e opposizioni a quegli ideali. La legge 833 che, alla fine del 1978, ha dato origine al Servizio sanitario nazionale contempla, ad esempio, un finanziamento contributivo incoerente con un servizio universale. Inoltre, da subito si sono messe all’opera diverse forze di opposizione. A questo riguardo, aggiungerei, non va dimenticato che al vertice del Ministero della Sanità che avrebbe dovuto applicare la l. 833 fu messo il liberale Renato Altissimo, esponente di uno dei due partiti che avevano votato contro il SSN. Non a caso, da subito si incominciò a parlare “di riforma della riforma”.
Giorgi poi si sofferma sullo snodo degli anni 90, quando in concomitanza con la crisi del 92, il Governo Amato, con l’allora Ministro della Sanità Francesco De Lorenzo, varò il decreto legislativo 502 il quale, oltre a fare leva sui due assi della aziendalizzazione del servizio (grazie sia all’introduzione di meccanismi che mimano il mercato all’interno del servizio pubblico sia al potenziamento del ricorso alla sanità privata) e della regionalizzazione, introduceva, all’articolo 9, la possibilità per le Regioni di realizzare in via sperimentale forme differenziate di assistenza, incluse forme che prevedessero l’uscita dal Servizio Sanitario Nazionale. Il che avrebbe segnato la fine di quest’ultimo. Solo grazie al successivo Governo Ciampi l’art. 9 fu bocciato.
Molta attenzione è anche dedicata alle difficoltà dell’”ultima riforma del secolo” scorso, a opera della Ministra della Sanità, Rosy Bindi e incorporata nel decreto legislativo 229 del 1999. Obiettivo centrale di tale intervento, come ricorda Giorgi, era “riconnettersi alla legge istitutiva del SSN e ai suoi principi, riaffermando una centralità politica della sanità – una sanità che doveva produrre “salute” – cancellando le principali anomalie della riforma De Lorenzo, recuperando il ruolo dei Comuni …. valorizzando quello dei distretti” contrastando i rischi di “privatizzazione passiva del SSN” e un federalismo che, sulla scia dell’autonomia di sperimentazione concessa alla Lombardia, rischiava di produrre una frammentazione dell’assistenza. Nel 2001, nel secondo governo Berlusconi, il pendolo torna indietro con il Ministro della Salute Girolamo Sirchia.
Gli ostacoli al cambiamento sono stati, dunque, molti e oggi rischiano di essere ancor più pronunciati a seguito del mancato investimento nel SSN e, con esso, della “fuga” dei medici dal SSN, delle penalizzazioni subite dal personale infermieristico e della conseguente insoddisfazione dei pazienti nonché di uno spirito dei tempi poco incline al senso del comune, del “noi”, richiesto da un Servizio sanitario nazionale. Ma il Servizio nazionale resta la miglior risposta in termini di giustizia e di costi ai fini della protezione e della promozione della salute e nulla obbliga al decadimento attuale. Cambiare si può e la visione iniziale, insieme alla consapevolezza degli ostacoli incontrati nel realizzarla, hanno molto da dirci al riguardo. Proprio per questo, il libro di Giorgi è prezioso.