Finanza

Investimenti verdi e contrattazione aziendale: la doppia sostenibilità*

Nel dibattito politico si sollevano dubbi e criticità sulle conseguenze economiche e sociali della cosiddetta transizione ecologica. Forse mai come negli ultimi mesi. I problemi riguarderebbero il passaggio verso un nuovo paradigma produttivo incentrato sul raggiungimento della neutralità climatica e sui vincoli imposti dalle politiche verdi dell’Unione Europea.

Ma andiamo per ordine. E prendiamo spunto da uno dei temi centrali della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che si è conclusa di recente a Baku, in Azerbaigian. Le politiche di contrasto al riscaldamento globale richiedono innovazioni tecnologiche indirizzate ad una pluralità di obiettivi: l’efficientamento energetico, la riduzione di emissioni di CO2, la promozione dell’economia circolare nei modelli di consumo e nelle logiche produttive. A queste priorità se ne aggiunge un’altra, altrettanto importante: porre le condizioni affinché il cambiamento verde dell’economia sia equo e inclusivo, “creando opportunità di lavoro dignitose e non lasciando indietro nessuno”, come raccomanda l’International Labor Organization (“none left behind”).

Non è un compito facile. Alcuni studi dimostrano come l’adozione di tecnologie verdi condiziona significativamente la dinamica competitiva delle imprese e l’andamento del mercato del lavoro. L’OECD documenta, ad esempio, che le politiche ambientali attuate dai vari governi condizioneranno in modo diretto o indiretto oltre il 25% degli attuali posti di lavoro nelle economie avanzate (OECD, “Employment Outlook 2024: The Net-Zero Transition and the Labour Market”, OECD Publishing, 2024).

Questi effetti potranno essere positivi o negativi nella misura in cui la creazione di nuove occupazioni associate all’espansione del settore delle energie rinnovabili e alla apertura di nuovi mercati e filiere produttive “verdi” riuscirà a compensare la distruzione di posti di lavoro legati all’economia dei combustibili fossili, anche come esito delle normative più restrittive in tema di comportamento ambientale. Un altro elemento da considerare sono poi le variazioni dei prezzi dell’energia e delle materie prime che possono influenzare in modo significativo nelle singole imprese la convenienza relativa degli investimenti in beni capitali tradizionali e l’impiego di lavoro “verde”, con conseguenze difficilmente prevedibili per la dinamica dell’occupazione e dei salari.

Nel complesso rimane il timore che la regolamentazione ambientale crei una pressione verso l’incremento dei costi di produzione e la caduta dell’occupazione, segnatamente nei processi produttivi dove vi è una forte complementarità tra input energetici da fonti fossili e impiego di lavoratori. L. Bretschger e A. Jo, “Complementarity Between Labor and Energy: AFirm-Level Analysis.” Journal of Environmental Economics and Management , 2024).

Non sorprende quindi che il dilemma ‘posti di lavoro contro salvaguardia dell’ambiente’ abbia coinvolto gli stessi rappresentanti sindacali, talvolta in qualità di agenti della transizione o all’opposto difensori dello status quo (T. Kalt, “Agents of Transition or Defenders of the Status Quo? Trade Union Strategies in Green Transitions.” Journal of Industrial Relations, 2022)

Quello che sorprende, piuttosto, è che il tema delle relazioni industriali sia stato finora quasi completamente trascurato. Anche perché la contrattazione tra imprese e rappresentanze sindacali può rappresentare uno strumento importante per governare gli effetti della transizione ecologica sul mercato del lavoro e i conflitti distributivi che ne derivano.

È sulla base di questa considerazione che può tornare utile quanto emerge da uno studio che abbiamo sviluppato a partire dai dati della VI Rilevazione Imprese e Lavoro (RIL) condotta da INAPP nel 2022 su un campione rappresentativo di società di persone e di capitali operanti nel settore privato extra-agricolo (M. Damiani, F. Pompei, F., A. Ricci, “Green transition and industrial relations at the workplace: Evidence from Italian firms”, British Journal of Industrial Relations, forthcoming)

L’indagine RIL raccoglie una ricca serie di informazioni sul profilo del management e della corporate governance, sulla domanda di lavoro e composizione degli occupati, sulla specializzazione produttiva, sull’assetto delle relazioni industriali. Il questionario della VI RIL registra, inoltre, se e in che misura nel periodo 2019-2021 sono stati effettuati investimenti nelle tecnologie della transizione ecologica e, specificamente, in una delle seguenti categorie: i) efficientamento energetico (interventi per ridurre l’uso di energia elettrica e termica per unità di prodotto); ii) sviluppo tecnologico per ottimizzare il processo produttivo e per l’implementazione di attrezzature eco-compatibili; iii) risparmio di risorse e adozione di pratiche eco-compatibili tra i lavoratori; iv) promozione dell’economia circolare per il ciclo di vita dei prodotti e la produzione dei rifiuti. Per le imprese che hanno risposto positivamente ad almeno una delle categorie elencate, viene poi richiesta la percentuale degli investimenti green rispetto al totale degli investimenti realizzati nel 2021. Ciò permette di costruire diverse misure di “intensità” del processo di transizione ecologica.

Arriviamo adesso ai risultati principali.

Il punto di partenza è che il 25% delle imprese italiane con dieci o più dipendenti ha adottato almeno una tecnologia “verde” nel periodo 2019-2021. La maggior parte di queste tecnologie riguarda interventi per migliorare l’efficienza energetica (66%) o per implementare miglioramenti tecnologici eco-compatibili (52%), mentre l’incidenza è più limitata nel caso delle opzioni di risparmio di risorse e dell’economia circolare.

Un altro aspetto importante è l’intensità di questo processo ovvero l’ammontare degli investimenti indirizzati alla transizione ecologica. Qui il quadro sembra meno ottimistico. Nella fattispecie, le risorse finanziarie dedicate all’adozione di tecnologie verdi nel 2021 sono state pari a circa 315 euro per dipendente, una cifra che corrisponde a circa il 3.17% del totale degli investimenti ovvero allo 0.2% dei ricavi nello stesso anno. Si tratta di statistiche medie che celano sostanziali differenze tra settori, territori e tipologie imprenditoriali. Ma nel complesso confermano l’idea che il sistema imprenditoriale italiano sta affrontando delle inerzie importanti rispetto alla portata della sfida che ci troviamo di fronte.

Volgiamo l’attenzione adesso al tema delle relazioni industriali. Le imprese che firmano un contratto integrativo sono circa il 10.3% del totale, sono accordi che riguardano soprattutto i premi salariali legati alla performance (6.2%) e, in misura più contenuta, la rimodulazione/flessibilità degli orari di lavoro (3%), i servizi di welfare aziendale (2.7%). In questo caso, i numeri sono coerenti con quelli di altre ricerche sull’argomento e non sembra necessario entrare troppo nel dettaglio (M. Damiani, F. Pompei, A.Ricci, “Tax breaks for incentive pay, productivity and wages: Evidence from a reform in Italy”, British Journal of Industrial Relations, 2023).

Il risultato più interessante riguarda non tanto le fotografie dei fenomeni presi in esame, ma il legame che tra essi inizia ad intrecciarsi.

Le analisi econometriche dimostrano, infatti, che l’ammontare delle risorse destinate al finanziamento delle tecnologie “verdi” produce una variazione significativa della probabilità di siglare accordi integrativi del contratto collettivo nazionale. In particolare, l’incremento della spesa per investimenti in transizione energetica aumenta la propensione a contrattare premi salariali legati alle performance produttive; in misura più contenuta, aumenta anche la probabilità di negoziare l’erogazione di servizi di welfare per i dipendenti e la rimodulazione dell’orario di lavoro.

Per razionalizzare questi risultati vi sono diverse spiegazioni. La nostra ipotesi è che l’adozione di tecnologie verdi chiama in causa variazioni significative nell’assetto organizzativo dei mercati interni del lavoro e nelle politiche del personale. Tali cambiamenti sono necessari per favorire una dinamica della produttività che sia in grado di riassorbire, almeno nel medio periodo, l’aumento nei costi di produzione che tipicamente si accompagna alla transizione energetica. La contrattazione decentrata rappresenterebbe dunque una leva efficace per coordinare tale processo in modo socialmente inclusivo ed economicamente efficiente sia per le prospettive salariali e professionali dei lavoratori che per le esigenze competitive delle imprese.

La nostra ricerca tiene conto di una molteplicità di fattori manageriali, produttivi e occupazionali che potrebbero “confondere” la direzione e la grandezza delle relazioni stimate. Nella fattispecie il quadro empirico si conferma anche considerando il ruolo della eterogeneità non osservata delle realtà imprenditoriali e i potenziali fenomeni di endogeneità (causalità inversa) connessi ai fenomeni in esame.

Tutto ciò sembra andare proprio nella direzione che accennavamo. Modificare in senso cooperativo le disposizioni della contrattazione collettiva settoriale che regolano i livelli salariali, i compensi non monetari e gli orari di lavoro può essere una strategia efficace ed equa per accompagnare la riqualificazione delle competenze e dei processi produttivi nell’economia della sostenibilità ambientale. In altre parole, l’appoggio delle rappresentanze sindacali alla causa ambientale non si spiegherebbe solo con le categorie delle preferenze politiche, ma anche come una opzione volta a cogliere le opportunità insite nei cambiamenti in atto, in grado di innalzare le retribuzioni e migliorare le condizioni di lavoro. Garantire una transizione equa per tutti gli stakeholder coinvolti nei luoghi di lavoro appare fondamentale per raggiungere la sostenibilità sociale e ambientale e affrontare le sfide di un’economia a zero emissioni. Naturalmente siamo consapevoli dei limiti della nostra ricerca, sia dal punto di vista metodologico che da quello delle prospettive di policy. I conflitti distributivi conseguenti la transizione ecologica non possono essere efficacemente affrontati con un’analisi esclusivamente economica e limitata al livello locale e ad un orizzonte di breve periodo. Le politiche pubbliche in tema di cambiamento climatico ed energetico hanno necessariamente una dimensione internazionale, vanno esaminate in un’ottica multidimensionale e avendo chiara in mente la sostenibilità di medio lungo periodo


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