Io, Ulisse. Come Altiero Spinelli ha tentato di diventare saggio
Si è parlato tanto negli scorsi giorni di Altiero Spinelli come politico e come autore del Manifesto di Ventotene ma pochi ricordano o sanno che è stato anche un raffinato scrittore.
Durante l’esilio Spinelli scrisse molto (lettere, riflessioni filosofiche, splendidi diari) ma solo vari anni dopo la Liberazione (1983-86) si dedicò alla sua Autobiografia, che pure costituiva da sempre “il” progetto della sua vita. Un progetto che intersecava il Diario, che lo accompagnò dal ’48 alla morte e in cui spesso evocò l’aspirazione a scrivere il libro delle sue memorie come una specie di confessione intellettuale, attraverso cui ricostruire il suo percorso verso la lotta per il popolo europeo. «Forse mi converrebbe fare due mesi di eremitaggio – scriveva l’11 ottobre ’56 – e venir fuori con questo libretto. Chissà che allora al mio appello di federalismo non risponda qualcuno».
Ritornerà sul progetto dopo tanti anni (A.Spinelli, Diario europeo, Il Mulino,1989-1992, p.299-300) e nel ’70, impegnato come membro della Commissione europea, ancora scriveva:
«Se questi quattro anni saranno un successo, alla fine del mio mandato, nel luglio 1974,quando avrò 67 anni, ci ritireremo Ursula ed io a Sabaudia e scriverò un libro tra autobiografico e meditativo (sul tipo delle confessioni di Sant’Agostino) per il quale ho già due titoli: Come sono diventato saggio, oppure Come mi preparo a morire» ( Prefazione a Come ho tentato di diventare saggio, Il Mulino,1999, p. X).
Ne passeranno però altri, preso com’era da impegni politici e dalla malattia della moglie, Ursula Hirschmann, che gli sottrassero molto tempo. Ma quando accadde che Giorgio Amendola, caro vecchio compagno di strada da sempre, e la moglie Germaine morirono insieme (anche Spinelli, sappiamo, avrebbe voluto non sopravvivere alla morte di Ursula!), per giunta appena dopo l’uscita delle memorie Amendola, Un’Isola, Spinelli reagì e ll 21 giugno ‘80 nel Diario (vol. III, p. 483) scrisse: «ho ripreso l’dea di scrivere la mia autobiografia».
L’ autobiografia assumerà via via vita propria e autonoma, guadagnando uno stile e una penetrazione di sguardo sul mondo attorno e su quello più distante, che da un lato ne faranno uno spaccato di storia (con profondi flashes psico/antropologici e continui, acutissimi confronti tra passato e presente, tra lo Spinelli confinato e lo Spinelli protagonista del destino europeo, tra i suoi progetti e la successiva realizzazione, tra idealità e realtà ) e dall’altro un testo letterario di altissima qualità e spessore. Vinse tre premi nell’84 – Viareggio, Acqui, Marotta – e Arrigo Levi scrisse che era uno dei più bei libri di quella generazione e insieme un importante documento storico da aggiungere senz’altro al corpo della letteratura italiana del ‘900. Nel complesso una sorta di “romanzo di formazione” che parte dall’infanzia e prende tutta una vita (metà vissuta in carcere – in nome della libertà!!) e che trova un traguardo nel ’41, quando la compagnia di Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, incontrati a Ventotene, darà uno scossone alla monotonia della vita carceraria e nuovi stimoli intellettuali da cui nascerà il Manifesto.
Dell’autobiografia egli riuscì a portare a termine solo la prima parte, con il titolo Io, Ulisse, mentre la seconda, La goccia e la roccia, restò incompiuta; l’insieme è stato poi raccolto in Come ho tentato di diventare saggio, per le edizioni del Mulino (l’ultima ristampa è apparsa nell’aprile 2006).
«Il titolo dell’insieme dei miei ricordi è Come ho tentato di diventare saggio, perché tutto quel che son venuto facendo e patendo da tempo immemorabile è sotteso dal desiderio di avvicinarmi con silenziosa modestia a questo ideale della filosofia ellenica, buddista, taoista. Questo primo volume parla però solo di anni nei quali, percorrendo una mia personale odissea ho cercato, perduto, scoperto e infine assunto quella che sarebbe diventata la vera e propria vita mia, reale e piena» (Premessa a Io,Ulisse, p.55).
I tre capitoli del secondo volume di memorie, che partono dal ‘43, dedicato idealmente a Don Chisciotte, dal titolo La goccia e la roccia, testimoniano del nuovo lungo corso della sua vita e di come un’idea buona, perseguita con costanza, possa vincere alla lunga e, proprio come la goccia, riesca a bucare anche una roccia: «In questo secondo libro parlo del mio presente cominciato 42 anni fa, ma ancora aperto e che sta tuttavia per concludersi con un libro, con un’azione o con tutte e due le cose» (Diario europeo, vol.III, p.1196).
E in La Goccia e la roccia (p. 349) scrive:
«Tuttavia, da quando mi sono accinto a pensare e scrivere La goccia e la roccia mi chiedo con sgomento se ne verrò a capo. Non sto invecchiando a poco a poco, ma cado verso la senilità per tonfi successivi e improvvisi, che provocano ciascuno, in modo netto e irrevocabile, diminuzione di forze, accrescimento di acciacchi, accelerazione nel precipitare delle ore [..] E poiché sospetto che se mi rincitrullissi nessuno me lo direbbe, non so, né saprò se le pagine che scriverò diverranno man mano incoerenti e insipide. Vorrei ritirarmi. Ma l’ho promesso a me, a tanti, a troppi e devo correre il rischio».
Scoperta sorprendente, dunque, quella di Altiero Spinelli, non come politico e intellettuale di grande statura – ché di questi suoi aspetti già molto si sapeva – ma come vero e proprio maitre a penser e come scrittore “di classe”, che meriterebbe un posto tra i classici della letteratura del novecento tout court per le splendide pagine dell’Autobiografia, ma anche per i Diari, gli scritti filosofici, le lettere. Qualunque argomento Ulisse trattasse si sentiva che dietro racconti, proposte, ricordi c’era un mondo inquieto ricchissimo e riflessivo, nato in quelle celle solitarie da letture onnivore, che si esprimeva con una capacità ineguagliabile nell’argomentare, in una scrittura chiara, limpida, sfaccettata e immaginifica: tipica ancor più della prosa narrativa che dell’autobiografia o del saggio. Splendida prosa la sua, mai ridondante o retorica o compiaciuta; eppure calda, viva di immagini e suggestioni così da lasciarsi leggere addirittura come un romanzo.
Spinelli, il cui nome di battaglia era stato Giorgio Massari, si definì Ulisse non appena entrò nella clandestinità, citando i noti versi danteschi «Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza…»; per lui virtute e conoscenza sono andate di pari passo fin dal primo giorno risultando complementari e fondamentali per la sua formazione. Conoscenza come cultura fortemente interdisciplinare, nata dalla lettura – spesso in lingua originale (aveva imparato nel frattempo 5 lingue) – dei classici greci e latini, della letteratura italiana e straniera, della filosofia, della politica, delle scienze, della storia: letture che hanno avuto un gran peso nella costruzione della sua virtute umana e etico-politica, quella per intenderci che sfocerà nel concetto di Europa come pace e democrazia. E che a sua volta nelle letture troverà la conferma della giustezza del percorso intrapreso e la forza di non demordere
Ogni lettera che scambia con la famiglia, soprattutto nei primi anni, è una richiesta di libri: dai vocabolari, alle grammatiche greche e latine, ai testi di storia, economia, perfino quelli di entomologia di Jane-Henri Fabre: sua passione da sempre lo studio degli insetti, che nell’Autobiografia costruirà spazi narrativi splendidi. Un’intera biblioteca in una minuscola cella: «Ti farò avere fra giorni gli altri libri che tu desideri, ma vuoi trasformare in biblioteca la cella?» gli chiede la madre. E ancora «…Occorre un limite, altrimenti la nostra biblioteca si trasferisce lì. Dove li tieni costà i libri? Per terra? O hai un tavolino?» rammentandogli anche che i figli sono sei e gli altri 5 fratelli avranno bisogno degli stessi libri! (P.Graglia,Caro Altiero, cara mamma, carteggio 1928-1931, p. 26).
«In cella, oltre ai libri della biblioteca del carcere, leggevo quelli che riuscivo a far venire da casa, e che superavano il meschino spirito censorio del cappellano. Una volta andai da lui per ottenere che rivedesse il veto che aveva posto ai miserabili di Victor Hugo, di cui proprio non riuscivo a cogliere gli aspetti immorali o solo amorali…» (Autobiografia, p. 118)
Loro, gli scrittori, i pensatori, i fantasmi letterari, che gli terranno compagnia nelle ore dure della prigionia prima e dell’esilio poi, Petrarca, Machiavelli, Shakespeare, Cervantes, S.Agostino, Melville, Nietzsche, Babel, Jack London, Carlyle saranno per Spinelli basi, fondamenta, e muri portanti del suo pensiero, i contenuti, cioè, ma anche capitelli e decori, ovvero le forme, il linguaggio con cui quei contenuti verranno espressi. Alla propria prosa Spinelli ha regalato il fascino di chi ha evitato con fermezza e da subito l’esclusività omologante del linguaggio della politica e della ideologia pure, e ha fatto proprie la docilità, la permeabilità, la liricità che derivano dal frequentare fonti umanistiche.
Dunque Spinelli si rivela – è qui la modernità che lo apparenta a molti classici del ‘900 – uomo fatto di dicotomie, di sfumature, di dubbi e di desideri oltre che di ragione e volontà; di sogni e di dimensioni notturne, oltre che di quotidianità e di buonsenso. Tentò di diventare saggio, ma come Don Chisciotte, aveva ancora tanti mulini a vento da combattere.
E’ stata una sorpresa anche scoprire che un politico del suo peso, curioso di matematica e scienze, di storia economia filosofia e psicanalisi, illuminista per scelta e laico per fede, nei lunghi 16 anni di carcere e di esilio, trovasse il vero conforto spirituale nei «fantasmi intimi e fedeli» della letteratura. E che alla poesia, che gli aveva «sussurrato qualcosa di più filosofico e di più elevato della storia», avrebbe riconosciuto il primato non solo nel suo cuore ma perfino nella sua mente: «Non vogliono insegnarmi mai nulla, non mi chiedono mai nulla, ma li sento attorno a me e faccio loro un cenno per riascoltarli nei momenti in cui devo osare, o tener duro, o distruggere o ricominciare o rinunciare, nei momenti di solitudine analoghi a quelli durante i quali cominciai a sentire le loro voci» (Autobiografia, p. 142).
«Conosco la forza delle parole, il loro suono a stormo. Non di quelle che i palchi applaudiscono. Parole per cui si smuovono le bare e si mettono a camminare sui loro piedi di legno. Conosco la forza delle parole. Pare un’inezia, un petalo caduto sotto i tacchi di una donna, ma…» (Majakovskij, cfr. Autobiografia, p. 371).
È proprio attraverso l’autoanalisi vigile e impietosa e le continue interrogazioni sul mondo, ma anche proprio attraverso il recupero di Ariosto e Omero, attraverso la lettura – anzi la rilettura – di Shakeaspere e San Paolo, di Machiavelli e Sant’Agostino, di Kant, Nietzsche, Hegel e Croce, di Majakovsky e Dostojevski, di Cartesio, Einstein, Planks,, Jean Fabre, Stuart Mill…che Spinelli arriverà a conquistarsi una sua solida e aperta coscienza politica del mondo.
La stessa che lo porterà a identificare nell’Europa l’unica prospettiva di pace e democrazia possibile.