Le politiche industriali nell’ era del potere di mercato
Lasciate per decenni nel cassetto degli strumenti inutilizzati (col beneplacito della grande maggioranza degli economisti) a causa dei loro presunti effetti distorsivi, negli ultimi anni le politiche industriali sono tornate prepotentemente alla ribalta. ll numero di interventi annui di politica industriale a livello mondiale è passato da 34 nel 2010 a I1.568 nel 2022, con un’accelerazione a partire dal 2018. In taluni casi, si tratta di politiche pervasive e di grande rilievo finanziario come il pacchetto Next Generation EU dell’Unione Europea, l’Inflation Reduction Act (IRA) e il CHIPS Act negli Stati Uniti.
La stragrande maggioranza di queste misure è stata attuata nelle economie di mercato avanzate e consiste essenzialmente in sussidi alle imprese private, per un terzo sotto forma di prestiti statali, per un quarto in finanziamenti al commercio, e per il 15% in sovvenzioni o crediti fiscali. L’obiettivo dei Governi è favorire crescita e competitività delle imprese nei settori considerati cruciali per le sfide del futuro, come le transizioni energetica e digitale. Anche economisti che, in passato, erano stati detrattori feroci delle politiche industriali si sono ricreduti e hanno ammesso l’opportunità e talvolta la necessità di questo tipo di interventi.
Il ritorno in grande stile della politica industriale avviene in un contesto macroeconomico caratterizzato (negli USA e in Europa) da un elevato e crescente “potere di mercato”, che si manifesta sotto forma di aumento della quota di mercato delle grandi imprese, aumento della forbice prezzi-costo medio di produzione (mark up), riduzione della quota di PIL che va al fattore lavoro (e quindi aumento della diseguaglianza nella distribuzione funzionale del reddito). Grandi e grandissime imprese, spesso leader tecnologici, hanno accumulato quote di mercato sempre più ampie, riducendo il grado di concorrenza nell’economia e limitando l’ingresso di nuove imprese. Questo fenomeno è particolarmente evidente nel comparto “tech” – dove poche imprese giganti dominano mercati chiave come quelli dei software, dei servizi cloud e dell’intelligenza artificiale – ma si è diffuso ampiamente anche in altri settori. Dagli anni ‘90 negli Stati Uniti oltre il 75% dei settori ha registrato un aumento medio del livello di concentrazione del 90%. Anche l’Europa non è immune da questa tendenza: a partire dal 2000, si è verificato un aumento significativo della concentrazione di mercato, seppure con tassi di crescita inferiori rispetto agli USA.
Parallelamente alla crescita del potere di mercato, abbiamo assistito, sia negli Stati Uniti che in Europa, al declino del “dinamismo industriale”, che si manifesta come minor flusso di nuove imprese, invecchiamento delle imprese esistenti, riduzione dei flussi tecnologici tra imprese, minor mobilità delle quote di mercato. La motivazione principale di questo fenomeno è la progressiva limitazione della diffusione della conoscenza tecnologica tra le imprese, a causa di un aumento vertiginoso del numero di brevetti, spesso depositati con scopi difensivi, e della capacità delle grandi imprese di attrarre lavoratori più qualificati, sia offrendo salari più elevati, sia acquisendo direttamente le start-up innovative. Ne discende un aumento dei divari di produttività tra imprese e tra settori e una crescente polarizzazione tra imprese leader (che talvolta raggiungono la dimensione di vere e proprie “superstar”) e follower. In altri termini, aumenta il “gap di produttività” tra imprese.
In questo contesto, paradossalmente il Rapporto Draghisul futuro della competitività europea sostiene che, per stimolare la competitività e il dinamismo dell’economia europea, sarebbe necessario favorire consolidamenti industriali nei settori strategici, con l’obiettivo di creare “campioni europei” capaci di competere con i rivali americani e cinesi. Il Piano Draghi è stato ampiamente discusso su questa rivista (n. 224/2024). In particolare, è già stato sottolineato come prendere gli Stati Uniti come modello di riferimento sia una scelta miope. Gli USA, infatti, stanno vivendo un declino del dinamismo economico, accompagnato da crescenti tensioni sociali e politiche. Inoltre, sono stati messi in luce i rischi per la concorrenza derivanti dai consolidamenti industriali impliciti nelle proposte del Piano. A riprova di ciò, il recente caso di DeepSeek – start-up cinese che ha sviluppato un modello AI in grado di competere con le soluzioni statunitensi (ad es. Chat GPT), ma gratuito, open-access, e con costi significativamente inferiori – dimostra quanto sia fuorviante la narrazione secondo cui il dominio delle “big tech” sarebbe inevitabile per rimanere alla frontiera tecnologica.
Se partiamo dal presupposto che abbondonare le politiche pro-concorrenza sia deleterio, occorre individuare politiche industriali atte ad accrescere la produttività e la competitività delle imprese senza aumentare il potere di mercato delle grandi imprese. Ciò richiede comprendere il doppio legame tra potere di mercato e politiche industriali. Vale a dire, le politiche industriali influiscono sul potere di mercato delle imprese e quest’ultimo modifica l’efficacia delle politiche industriali.
In un recente studio, abbiamo analizzato l’efficacia di vari tipi di politica industriale nel favorire la crescita economica e contrastare l’aumento del potere di mercato. Abbiamo usato un modello macroeconomico computazionale (agent-based), calibrato in modo da replicare, nello scenario di base, il contesto economico sopra descritto – limitata diffusione della conoscenza tecnologica, ampio potere di mercato delle imprese leader, e frutti del progresso tecnico concentrati in poche mani – che ha caratterizzato gli USA nell’ultimo cinquantennio. Nello studio esaminiamo una serie di scenari controfattuali che rispondono alla domanda “cosa succede al tasso di crescita del PIL e ai principali indicatori di dinamismo industriale (distribuzione degli incrementi di produttività tra imprese, concentrazione industriale, mark-up, quota dei salari sul PIL) se si adotta un determinato tipo di politica industriale?” Abbiamo considerato sia misure più tradizionali, come sussidi alla Ricerca e Sviluppo (R&S) e all’adozione tecnologica – ad esempio, Legge Sabatini e Industria 4.0 in Italia -, sia strumenti meno convenzionali, come la creazione di un’infrastruttura pubblica di ricerca volta a generare e diffondere nuova conoscenza tecnologica.
Il modello computazionale è basato sulla scomposizione del progresso tecnico in due fasi, che coinvolgono due settori industriali verticalmente integrati: (i) l’innovazione nel settore delle imprese che producono beni capitali (K-imprese), che genera “macchine” più produttive, e (ii) l’adozione, che integra le nuove macchine nel processo produttivo delle imprese che producono beni di consumo (C-imprese).
Entrambi questi momenti possono essere caratterizzati da gradi diversi di diffusione della conoscenza tecnologica. Nella fase dell’innovazione, la diffusione della conoscenza avviene attraverso l’imitazione: quanto più facilmente imitabili sono le nuove scoperte nella produzione di macchine, tanto più diffusa sarà la conoscenza tra le K-imprese. Ciò avviene, ad esempio, in un regime di brevetti non eccessivamente stringente. Nella fase dell’adozione, invece, la diffusione della conoscenza avviene attraverso l’accumulazione interna di competenze tecniche relative all’impiego delle nuove macchine e/o attraverso l’assorbimento di tali competenze per effetto del contatto con le altre C-imprese (spillover di conoscenza).
Quanto maggiore è la complementarietà tra la tecnologia incorporata nelle nuove macchine e la conoscenza che la C-impresa adottante deve avere, tanto minore sarà la velocità con cui le innovazioni si diffondono nell’economia: solo le C-imprese più ricche di competenze, infatti, saranno in grado di incorporare nel processo produttivo le macchine più nuove e produttive. Tanto maggiore, di conseguenza, sarà il gap tecnologico tra imprese leader e imprese laggard, e dunque il potere di mercato delle prime. In altre parole, il progresso tecnico può diventare motore di disuguaglianze, invece che di sviluppo condiviso, come già osservava Paolo Sylos Labini in Oligopolio e Progresso Tecnico (1961), sottolineando il legame tra dinamiche dell’innovazione tecnologica, concentrazione industriale e distribuzione del reddito.
I nostri risultati indicano che i sussidi pubblici alla R&S delle K-imprese stimolano la crescita di produttività e PIL. Tuttavia, essi inducono un aumento del divario tecnologico tra imprese leader e laggard, rafforzando il potere di mercato delle prime e aumentando le disuguaglianze nella distribuzione del reddito. Questo avviene perché, in presenza di distribuzione disomogenea della conoscenza tecnologica, le innovazioni sviluppate grazie ai sussidi rimangono appannaggio di un gruppo ristretto di imprese avanzate. Le imprese laggard, prive delle competenze necessarie per adottare tali innovazioni, restano escluse dal processo di avanzamento tecnologico, e il divario con le imprese leader si allarga. Di conseguenza, le grandi imprese tendono a sfruttare il loro crescente potere di mercato per aumentare i margini di profitto, innescando una redistribuzione del reddito dal lavoro al capitale.
Simmetricamente, i sussidi pubblici all’adozione tecnologica per le piccole e medie C-imprese si rivelano efficaci nel ridurre la concentrazione e il potere di mercato, ma non sono sufficienti a rilanciare la crescita economica. Infatti, se le imprese laggard ricevono incentivi per adottare beni capitali tecnologicamente avanzati senza un corrispondente rafforzamento delle loro competenze e capacità di assorbire tali innovazioni, il beneficio risulta limitato e parziale.
Il messaggio principale del nostro studio è che nessuna politica industriale può essere davvero efficace se non affronta la questione della diffusione della conoscenza, sia nella fase di innovazione che, soprattutto, in quella di adozione delle nuove tecnologie. Non basta favorire l’imitazione delle innovazioni tra le K-imprese, ad esempio con un regime di brevetti meno stringente. Se le C-imprese non dispongono del know-how necessario per adottare le nuove tecnologie, anche una maggiore facilità di imitazione rischia di accentuare il divario tra chi innova e chi fatica a sfruttarne i benefici.
Per superare questo ostacolo, il nostro studio suggerisce di investire in infrastrutture pubbliche di ricerca (come discusso da Florio e Giffoni in questa rivista). In uno scenario controfattuale, ipotizziamo che i governi creino infrastrutture di ricerca in grado di generare nuova conoscenza tecnologica e di renderla accessibile a un’ampia platea di attori economici. Facilitando l’accumulazione e la diffusione di competenze tecniche, queste infrastrutture ridurrebbero le barriere che impediscono alle imprese meno avanzate di stare al passo con le leader. Questo tipo di infrastrutture pubbliche potrebbe funzionare sulla falsariga di centri esistenti, come il CERN o l’ESA, eccellenti incubatori pubblici di progresso tecnico.
Guidati da questi risultati, abbiamo costruito scenari controfattuali per esplorare gli effetti di diverse combinazioni di strumenti. I nostri risultati mostrano che, sebbene sussidi alla spesa in R&S delle K-imprese, intesi a stimolare l’innovazione, e incentivi per l’adozione tecnologica da parte delle C-imprese meno avanzate possano stimolare la crescita della produttività e contrastare l’aumento del potere di mercato, questi effetti restano limitati. Solo investendo in infrastrutture pubbliche di ricerca, capaci di produrre e diffondere conoscenze tecnologiche di alto livello accessibile a un ampio numero di attori economici, è possibile rafforzare in modo significativo questi meccanismi, tenendo insieme progresso tecnico e sviluppo condiviso.
Un’efficace politica industriale deve adottare un approccio coordinato, che riconosca il ruolo centrale del settore pubblico non solo come finanziatore dell’innovazione, ma anche regolatore della concorrenza. Senza un intervento mirato, il progresso tecnologico rischia di rimanere concentrato nelle mani di poche imprese, ampliando le disuguaglianze. Il futuro della politica industriale non può limitarsi a incentivare la ricerca e lo sviluppo: deve anche rimuovere le barriere che impediscono a tutta l’economia di trarre beneficio dall’innovazione, promuovendo così una crescita più inclusiva e una distribuzione più equa dei benefici economici.