Finanza

L’Europa del Manifesto di Ventotene e quella della Presidente Meloni

Dopo che, il 19 marzo scorso, la Presidente Meloni ha, con grande enfasi, dichiarato che l’Europa che lei vuole non è quella delineata nel Manifesto di Ventotene, ci siamo posti la seguente domanda: e quale è?

Nel suo intervento la Presidente si è limitata a leggere, con enfasi non neutra, due passaggi del Manifesto ed è utile chiedersi perché siano stati prescelti e cosa contengono che può aiutare a spiegare le distanze tra l’Europa della Meloni e quella del Manifesto.

Partiamo dal secondo passaggio, quello che ha fatto salire la temperatura in Parlamento: “Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato, e intorno ad esso la nuova vera democrazia”. La compresenza di dittatura e democrazia in questa frase dovrebbe sconsigliare di avanzare più o meno implicitamente (e di indurre a far propria) l’ipotesi che il Manifesto auspichi per l’Europa qualcosa che sappia, anche lontanamente, di dittatura. E ogni eventuale residuo dubbio al riguardo cadrebbe se ci si spingesse a leggere qualche riga più in là: la dittatura non deve esercitarla l’Europa che verrà ma il soggetto che assumerà su di sé il compito di portare verso l’Europa democratica, innescando e governando quella che viene chiamata crisi rivoluzionaria (ed europea).

Il termine dittatura del partito rivoluzionario, che forse poteva lasciare il passo a formulazioni meno controverse (ad esempio: inflessibilità del partito nel perseguimento dei propri obiettivi) nasce dalla necessaria presenza di un soggetto che guidi il processo ma che, date le condizioni di sospensione della democrazia, non può nascere dalla “preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare”. D’altro canto, esso non può rischiare di mancare i propri obiettivi soccombendo agli interessi poco o tanto divergenti di quanti lo sostengono.

A quel partito – volando alto come i tempi impongono – si chiede la “coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna” e di non limitarsi ad avere come riferimento soltanto il proletariato perché così sarebbe “privo di quella chiarezza di pensiero che non può venire che dagli intellettuali” e rimarrebbe “prigioniero del vecchio classismo, vedrà nemici da per tutto, e sdrucciolerà sulla dottrinaria soluzione comunista”.

Dunque, nel passaggio citato si parla del mezzo (il partito) e non del fine (l’Europa). Le ragioni per cui questo punto non è stato reso con chiarezza possono essere più di una, ma non tantissime. Approssimazione nella lettura, debolezza verso forzature interessate e poco altro. Ognuno può attribuire probabilità a queste alternative. Ma resta il fatto che l’Europa che vuole il Manifesto non prevede la dittatura, e di certo neanche quella della Meloni. In particolare, quanto alla democrazia che dovrebbe imporsi in Europa, si intende “creare intorno al nuovo ordine un larghissimo strato di cittadini interessati al suo mantenimento, e per dare alla vita politica una consolidata impronta di libertà, impregnata di un forte senso di solidarietà sociale. Su queste basi, le libertà politiche potranno veramente avere un contenuto concreto, e non solo formale, per tutti, in quanto la massa dei cittadini avrà una indipendenza ed una conoscenza sufficiente per esercitare un continuo ed efficace controllo sulla classe governante”.

Su questo punto, cioè quello delle forme di partecipazione politica e selezione delle classi dirigenti, quale è la possibile alternativa della Meloni? Se fosse il trumpismo, sarebbe lecito chiedersi se, per esempio, un modello in cui ricchissimi oligopolisti e monopolisti dei mercati dell’informazione concorrano a formare le decisioni degli organismi Politici ed Esecutivi di uno stato Federale sia auspicabile anche in Europa.

La prima citazione dal Manifesto, anch’essa letta con  grande enfasi , è questa: “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso” – e la Presidente Meloni ha aggiunto questa sottolineatura; “non dogmaticamente ma caso per caso” . Ma è proprio così che funziona in Europa, dove la proprietà privata viene talvolta estesa, talvolta regolamentata e altre volte limitata o abolita, ma “caso per caso”, che non vuol dire soccombendo a interessi di parte.  Rilevano condizioni di efficienza ed equità, che sono quelle che spingono anche a richiedere più diritti per i lavoratori nella gestione dell’impresa con corrispondente limitazione dei diritti di proprietà. Una richiesta che ha trovato accoglienza nell’art. 46 della Costituzione . Specifica, il Manifesto che “Non si possono più lasciare ai privati le imprese che, svolgendo un’attività necessariamente monopolistica, sono in condizioni di sfruttare la massa dei consumatori”. Lo Stato ha il compito di correggere le distorsioni del mercato, impedire la concentrazione della ricchezza e garantire che l’iniziativa privata non diventi uno strumento di dominio.

Il fatto che questa frase sia sembrata inaccettabile, permette di avanzare una fruttuosa ipotesi per dare risposta al nostro quesito e eventualmente cogliere le differenze tra le due Europe – quella della Meloni e quella del Manifesto. Partiamo dalla critica che quest’ultimo muove a una possibile alternativa; il corporativismo. “Il corporativismo non può avere vita concreta che nella forma assunta dagli stati totalitari”. Il riferimento contemporaneo del corporativismo è la sua versione autoritaria (si veda A. Gagliardi, Fascist in Italy in the age of Corporativism, Routledge, 2024) ma il dubbio che si può avanzare è che un approccio corporativista non autoritario (anche per l’Europa) sia ancora presente tra chi ha avuto una formazione politica come quella della Presidente Meloni.

E’ utile osservare che le varie forme di abiure o critiche al fascismo nella storia del MSI e di FdI, incluso il congresso di Fiuggi , non hanno mai riguardato i temi strettamente economici, ma aspetti di maggior clamore. Ci sono anzitutto le leggi razziali, l‘alleanza con Hitler, la dittatura come forma politica. Più raramente invece si sono riconosciuti errori sulle restrizioni alle libertà personali, la violenza sugli oppositori, l’iprite e i lanciafiamme sui bambini etiopi, il ruolo della donna, ecc. ecc. Le questioni economiche, invece, vengono spesso menzionate nelle rituali frasi conclusive delle stesse concessioni e collocate tra le “cose buone” precedute da un “però ha fatto anche”. Un ever green al riguardo è l’istituzione dell’INPS, ma poche conoscenze di base bastano per rendersi conto che i suoi benefici immediati furono praticamente nulli. Quando si crea un istituto previdenziale, i lavoratori e le imprese pagano i contributi ma non vi sono corrispondenti pensioni da erogare: si tratta nei fatti di un semplice prelievo aggiuntivo (il cui gettito ha contribuito al finanziamento dei crimini di guerra in Africa). Al di là delle perplessità sulle singole “cose buone”, sui temi economici in generale, e sul corporativismo in particolare, non si è registrata alcuna presa di distanza.

A spingere nella direzione neocorporativa può contribuire la composizione e la dinamica della base sociale che esprime consenso alla Destra al governo. Ben chiara è la vicinanza alle varie categorie di tassisti, albergatori, balneari, rottamatori seriali di cartelle esattoriali e simili nonché con vari piccoli ma stabili gruppuscoli di interessi protagonisti delle nottate-emendamenti delle Commissioni Bilancio del Parlamento. A questo di aggiungono convergenze e possibili saldature con corporativismi di altra ispirazione, incluso quello cattolico che sopravvive come eredità in alcune formazioni come CISL e Comunione e Liberazione. Su questo aspetto specifico vale la pena di ricordare che proprio la saldatura tra la variante fascista e quella cattolica permise al corporativismo di sopravvivere alla caduta del fascismo, in Portogallo, fino agli anni ’70 (v. D. Serapiglia, La via Portoghese al Corporativismo, Carocci, 2011).

Ma qual è l’elemento comune dei vari corporativismi che li pone in contrasto con il Manifesto?Nel corporativismo la proprietà privata è un diritto naturale, e al proprietario è assegnato il compito morale di utilizzarla per un fine “sociale”. Il potere politico svolge non un ruolo di contrappeso di quello economico, ma di arbitro tra interessi particolari, garantendo semplicemente che la partita non finisca in rissa. L’obiettivo è l’armonia non la giustizia sociale. La società stessa va organizzata attraverso strutture di mediazione degli interessi di parte che non intacchino le relazioni di potere.

L’approccio corporativista è compatibile con la responsabilità sociale di impresa, sia quella delle certificazioni dei Sustainable Development Goals che quella dei progetti antidiscriminatori di Meta. Fino a quando la moralità del proprietario non si adatta al nuovo consensus dominante. Non è invece in linea con le pratiche antimonopolistiche o più in generale con l’idea che l’intervento pubblico sia necessario in presenza di fallimenti del mercato, sotto il profilo dell’efficienza e dell’equità.

Interessi di carattere generale, come la pace o la sostenibilità ambientale, hanno poco spazio. Alla mediazione degli interessi particolari si affianca invece, a livello centrale, un’azione pubblica meritoria ispirata a sistemi valoriali organicisti. Il rischio, che va nella stessa direzione della frase critica del Manifesto, è che un tale sistema si schieri per il superamento del parlamentarismo liberale a favore di una rappresentazione extra-parlamentare degli interessi.

Da un punto di vista tattico, l’approccio corporativista gode di un grande vantaggio rispetto a quello del Manifesto di Ventotene. Quest’ultimo, richiede di mettere in discussione lo status quo, di superare le resistenze degli interessi costituiti, piccoli e grandi. L’organizzazione intransigente delineata nel Manifesto, nell’altro punto citato, rispondeva a queste esigenze tenendo conto dei tempi: sarebbe interessante capire cosa potrebbe corrispondervi oggi, considerando le nuove emergenze democratiche.

Il corporativismo, invece, è un “etichetta che ognuno incollava sulla bottiglia che gli pareva, senza preoccupazione alcuna dell’uniformità del contenuto”, diceva Louis Boudin. La confusione del corporativismo (si veda M. Pasetti, ed. BUP, 2016, sulla caratteristica del termine stesso), rende compatibili, perlomeno su un piano retorico, spinte molto diverse, perché non ne nega la legittimità ma solo l’eventuale carica trasformatrice. È un singolare marchingegno che riesce a tenere insieme i sussidi al welfare aziendale con la consegna a Musk delle comunicazioni strategiche dell’Esercito Italiano.

Sul piano pratico però, le contraddizioni emergono. Se guardiamo alla storia, il corporativismo fu il perno del modello che il fascismo voleva esportare in Europa con l’Internazionale nera. Immaginiamo però che non sia neanche questa l’Europa della Meloni, soprattutto perché l’Italia così fini nell’autarchia.

Tutto ciò può aiutare a comprendere quale sia l’Europa che vuole la Presidente e perché sia diversa, come ha enfaticamente sottolineato, da quella del Manifesto, La dittatura non c’entra in alcun modo. E neanche l’abolizione della proprietà privata. Semplicemente perché il Manifesto non auspica né l’una né l’altra. C’entra, invece, probabilmente la diversa idea di assetto istituzionale e modello socio-economico: corporativo piuttosto che inclusivo, se così vogliamo chiamarlo. Se di questo si tratta e la Presidente del Consiglio, consapevolmente, lo avesse detto, avremmo ben altra materia su cui discutere, dibattere e magari anche litigare. Si è, invece, discusso e litigato di tutt’altro e qualcuno dice che esattamente questo era lo scopo della Meloni. Ma la domanda: “può dirci Presidente, in cosa esattamente la sua Europa si differenzia da quella del Manifesto?” qualcuno avrebbe potuto farla. E che non sia accaduto non è senza significato.