Milano 2025. Edilizia senza urbanistica, rigenerazione senza vantaggi pubblici
Il dibattito di questi mesi intorno al disegno di legge cosiddetto “Salva Milano” supera la contingenza milanese. Lo smantellamento della dimensione pubblica nelle città è un fenomeno che condiziona i meccanismi di riproduzione urbana attraverso la privatizzazione della dimensione pubblica dello spazio in tutta Italia e non solo. Ciò avviene sia a causa delle dinamiche della finanza immobiliare, sia attraverso la privatizzazione di servizi essenziali per la vita dei cittadini.
Possiamo davvero immaginare città che siano la somma di interessi privati guidati solo dalle leggi del mercato o da una malintesa applicazione del principio di sussidiarietà?
Può una città rispondere alle esigenze sempre più complesse e urgenti della società che evolve, dell’ambiente e del clima che cambiano, senza una visione integrata del proprio futuro che sia espressione ed esito di processi democratici?
Rigenerazione “fai da te”. Il caso di Milano è emblematico. Da molti anni è la città che in Italia esprime le quote più consistenti del mercato immobiliare nazionale attraendo capitali esteri e italiani. Eppure, ogni anno il bilancio comunale fatica a soddisfare i bisogni fondamentali di servizi. La mancanza di case abbordabili è un problema cronico, l’offerta di servizi sociali, dei servizi sportivi e del tempo libero è considerata un costo e non un investimento necessario, il trasporto pubblico di superficie è in crisi anche per il costo della vita in città, la manutenzione ordinaria dello spazio pubblico un impegno da misurare negli anni. Accade così che a Milano, mentre i prezzi degli immobili crescono e i margini delle operazioni immobiliari sono doppi rispetto a molte città d’Europa, si considera normale la riduzione, per buone ragioni economiche, di servizi, l’alienazione del patrimonio pubblico, del welfare materiale e delle aree agricole, la concessione a privati per decenni di spazi dedicati a servizi fondamentali per la vita e il benessere dei cittadini, come i centri balneari.
Tutto ciò stride con le modalità che, da almeno dieci anni, il Comune di Milano ha adottato nella gestione di molti interventi cosiddetti di “rigenerazione urbana”. A partire dal 2013, la prassi di utilizzare la certificazione con effetto immediato (SCIA) è stata estesa ad interventi su lotti fino a due ettari. Con un’interpretazione originale delle norme nazionali e regionali, un indirizzo politico veicolato dagli uffici, interventi di demolizione e ricostruzione con nuovo sedime, sagoma e destinazione funzionale sono stati classificati come ristrutturazioni edilizie e le relative convenzioni tra imprenditori e funzionari comunali sono state siglate di fronte a un notaio, come un atto privato.
L’esito è stato la riduzione di oltre il 60% degli oneri di urbanizzazione – già molto bassi e adeguati solo di recente – che, in caso di nuova costruzione, sarebbero stati richiesti.
In un regime di risorse pubbliche scarse, a Milano si è scelto di non incassare oneri che, se commisurati alla effettiva natura degli interventi, sarebbero stati il triplo di quanto è stato effettivamente richiesto. La semplificazione delle procedure ha sancito la fine della distinzione tra “ristrutturazione” e “nuova costruzione”, anche nel caso di cambio di destinazione d’uso, da capannoni a residenze. Nuovi volumi, nuove funzioni, aumento della popolazione e della domanda di servizi e infrastrutture – ciò che si definisce carico urbanistico – sono stati autorizzati senza pianificazione urbanistica, senza adeguata valutazione degli esito ambientali, sociali e sulla qualità della vita dei cittadini.
Si è così affermato un modello di “rigenerazione fai da te”: la città si è trasformata in modo frammentato, con interventi sproporzionati e inadeguati al contesto. Soprattutto, ciò è avvenuto al di fuori degli indirizzi politici del consiglio comunale e delle scelte di governo della giunta. Nella mancanza di evidenza pubblica, l’evidenza degli esiti visibili di queste procedure, i cosiddetti grattacieli negli isolati e nei cortili, la demolizione di parti di città storiche e misurate, ha suscitato proteste, segnalazioni e denunce da parte dei cittadini singoli e dei comitati: reazione “nimby” ad una azione assai poco trasparente che ha avuto come esito l’attenzione e l’intervento della magistratura..
Una (impropria) prassi locale diventa legge nazionale. L’equiparazione milanese tra ristrutturazione e nuova edificazione con cambio di destinazione d’uso ha generato una disarmonia normativa e trattamenti procedurali ed economici ingiustificatamente differenti per interventi che, nella sostanza procedurale, sono spesso identici. Sono state autorizzate trasformazioni edilizie e urbanistiche consistenti in contrasto con la normativa nazionale e con l’interpretazione consolidata della giurisprudenza, che ha sempre considerato la pianificazione come un elemento imprescindibile. Non si può, infatti, ritenere che le convenzioni urbanistiche tra Comune e operatori privati possano sostituire il ruolo della pianificazione attuativa. Senza l’approvazione del Consiglio comunale o della Giunta, non vi sono le condizioni di trasparenza, di pubblicità, di partecipazione e il bilanciamento degli interessi.
L’intervento della magistratura ha così messo in luce la forza destabilizzante di questa prassi, spingendo l’amministrazione milanese a rivedere almeno in parte le procedure possibili per interventi di rigenerazione urbana e fornendo agli uffici, esposti in prima linea e in difficoltà, un orizzonte di riferimento anche a propria tutela. Alcune pratiche sono state ritirate, è possibile ripresentarle nella forma adeguata ed è anche possibile sperimentare percorsi di giustizia riparativa.
L’attività edilizia non è dunque da considerarsi bloccata: è stata bloccata una modalità specifica della rigenerazione urbana “fai da te”. In una città dove non mancano i cantieri attivi in cui sta lavorando chi ha seguito strade diverse. La vicenda milanese sarebbe rimasta un problema locale se l’approvazione alla Camera dei deputati del disegno di legge 1309 nella forma emendata come interpretazione autentica, detto “Salva Milano” – presentato da membri della maggioranza di governo con l’appoggio del PD, di Azione e Italia Viva – non l’avessero trasformata in una questione di rilevanza nazionale.
Implicazioni e aspetti critici del disegno di legge. Nel legittimare la prassi milanese, il disegno di legge, oltre ad ammettere che ogni demolizione e ricostruzione con cambio di destinazione d’uso possa essere considerata una semplice ristrutturazione, dichiara che anche sopra i 25 metri di altezza della nuova edificazione e con un indice fondiario superiore a 3 mc/mq, non è necessario il Piano Attuativo, contrariamente a quanto previsto dalla legge urbanistica del 1942 e dalle sue successive integrazioni e modifiche.
Rinunciare al Piano Attuativo, invece di attualizzarlo, riportando il tema della rigenerazione entro la sola sfera dell’edilizia, è un azzardo. Nella migliore prassi urbanistica italiana i Piani Attuativi sono infatti la sede in cui si negoziano, armonizzano e concordano gli interessi privati con le ricadute pubbliche sulla base della previsione di volumi, funzioni, servizi che trovano poi sviluppo in progetti edilizi. Pur non garantendo la qualità degli esiti, i Piani Attuativi ne sono la precondizione anche perché sono strumenti assai flessibili, possono essere accompagnati da norme specifiche, linee guida e convenzioni tipo, che permettono di attualizzare e adattare nel tempo le previsioni dei Piani generali.
Critiche molto banali attribuiscono ai Piani Attuativi il solo aggravio burocratico, dimenticandone il valore tecnico e soprattutto civile poiché nell’evidenza pubblica e entro gli indirizzi politici del Consiglio Comunale, definiscono gli standard urbanistici, gli oneri di urbanizzazione e le modalità per restituire alla collettività parte del valore aggiunto generato dalla ogni singola trasformazione.
Il disegno di legge, concepito su misura della prassi milanese, cancella inoltre ogni distinzione tra ristrutturazione edilizia e nuova costruzione, tra ristrutturazione edilizia e urbanistica, aggiungendo alla già ampie possibilità ammesse dal testo unico per l’edilizia il cambio di destinazione d’uso. Nessuna legge era arrivata a tanto e ci è voluta una “interpretazione autentica” per aggiungere alcune parole fondamentali mai utilizzate, un tradimento del linguaggio oltre che delle fonti e dei loro principi.
Se il ddl “Salva Milano” passerà anche al Senato la legge sanerà gli interventi passati (a partire dal 2013, D.L. 98 – decreto del fare), ma renderà possibili e legittimi interventi analoghi anche nel futuro, esportando il “modello Milano” in tutta Italia. Non è una sanatoria, come avrebbe potuto essere in una prima stesura del testo poi emendata. E’ assai peggio perché legittima in tutto il Paese una prassi locale che annulla il valore del progetto urbanistico, sterilizza la possibilità di raccogliere risorse a vantaggio pubblico. Contrariamente a quanto auspicato dai sostenitori del disegno di legge e dalla stessa ANCI, per voce del presidente Gaetano Manfredi, la legge, nella formulazione approvata alla Camera, non è proposta come una norma transitoria in vista di un riordino della disciplina urbanistica nazionale. Apre piuttosto a incertezze, conflitti istituzionali (tra amministrazioni e magistratura), a ricorsi da parte di chi ha rispettato le procedure, pagando oneri maggiori di altri, a dubbie premesse per la stessa auspicata riforma delle leggi urbanistiche nazionali.
Il tradimento di un principio culturale e civile. Il disegno di legge “Salva Milano” tradisce un principio fondamentale della cultura e della dimensione civile dell’urbanistica italiana, che risale alle sue origini: il legame inscindibile tra interesse privato e bene comune, tra vantaggio individuale e ricadute collettive, tra opere private e opere pubbliche. Un legame che dovrebbe essere sostenuto dai più raffinati strumenti dell’urbanistica e della politica locale. Il privato, pur godendo dei suoi diritti e libertà, ha sempre la responsabilità di restituire valore alla comunità e di integrarsi con il tessuto urbano esistente. Il vantaggio economico derivante dall’investimento dovrebbe comportare un contributo alla collettività, attraverso la realizzazione di infrastrutture e servizi pubblici, nel dialogo con la pubblica amministrazione e entro una visione condivisa del futuro delle città.
Per queste ragioni e per molte altre assai articolate nel corso di questi mesi, il disegno di legge ha sollevato critiche e opposizioni da parte di molti urbanisti (si sono espressi in maniera critica e unitaria sia la SIU, Società Italiana degli Urbanisti, l’INU, Istituto Nazionale di Urbanistica), da parte di giuristi, amministratori pubblici, associazioni ambientaliste, associazioni di proprietari immobiliari, intellettuali e accademici uniti dal rispetto della carta costituzionale tra i quali Salvatore Settis e Paolo Maddalena. Perfino una sindaca straniera con consuetudini italiane, Ada Colau, il cui operato innovativo a Barcellona è stato spesso preso come riferimento dall’amministrazione milanese, non ha risparmiato dure critiche al disegno di legge.
Nell’attesa degli esiti politici e legislativi del dibattito, possiamo riconoscere che la vicenda milanese ci dice che, oltre la soluzione dei problemi contingenti di Milano, c’è sicuramente bisogno di innovazione, ma di un’innovazione che diventi un nuovo punto di riferimento all’interno del quadro costituzionale e democratico, non certo un’occasione di distruzione dei principi civili e tecnici che hanno guidato la costruzione delle città europee. Non è escluso che Milano, vogliamo sperarlo, risolvendo in casa propria i propri errori, evitando scontri politici e istituzionali inopportuni che potranno ledere solo i soggetti più deboli di tutta questa vicenda come gli uffici pubblici e gli acquirenti degli immobili sotto indagine, possa oggi divenire il luogo in cui sperimentare forme di rigenerazione urbana più appropriate e in grado forse di segnare una via anche per altre città italiane. Sarebbe auspicabile perché orientare le trasformazioni delle città e dei territori italiani – maggiori e minori, pubbliche e private in modo sistematico e deciso – a un principio condiviso di cura per i bisogni sociali, rispondendo alle emergenze ambientali, alle sfide climatiche è ormai irrinunciabile. Per questo, nella frammentazione e nella pluralità delle trasformazioni della città esistente è essenziale ricondurre l’edilizia e l’urbanistica, oggi separate, a una sostanziale unità e coerenza, per non smarrire l’idea che la città sia sempre esito della composizione responsabile e condivisa di interessi individuali e diritti collettivi.