Non solo una cattiva legge, una legge cattiva
È entrata in vigore nei primi giorni di novembre 2024, dopo la firma del Presidente Mattarella (che, pure, lo aveva detto di aver dovuto firmare anche le cattive leggi). Ed è stata presentata con grande entusiasmo dalla maggioranza come una legge che combatte un reato universale, il cosiddetto “utero in affitto”. Ma, con buona pace delle forze di governo, non è così. In fondo basta pensarci: come può quello che decide un parlamento nazionale valere anche per gli altri Paesi? E infatti non vale. Il nuovo articolo di legge (in effetti, uno solo) si “limita” a stabilire che quello che la legge 40 vietava già da vent’anni (punto 6, articolo 12) dovrà valere nei confronti dei cittadini italiani anche se la procedura sarà eseguita all’estero. Una legge, insomma, che cerca di rendere noialtri italiani (e solo noi) un po’ più punibili, prevedendo da 3 mesi a 2 anni di reclusione e multe da 600mila a un milione di euro a chiunque abbia a che fare con questa procedura. La pretesa che questa tecnica di procreazione medicalmente assistita, la gravidanza per altre persone, in sigla Gpa, che si pratica in alcuni Paesi da almeno trent’anni, abbia il profilo di un reato paragonabile ai crimini di guerra e al genocidio, sembra già un po’ fuori dal mondo reale.
A maggior ragione è ancora tutto da dimostrare che si riuscirà davvero a perseguire le persone che si sono rivolte a quei Paesi dove la procedura è perfettamente legale. Il diritto internazionale, infatti, prevede la cosiddetta doppia incriminazione, cioè che il fatto sia reato in entrambi i Paesi coinvolti. Soprattutto non è chiaro che cosa succederà ai bambini e alle bambine nati con la Gpa, nel caso in cui i loro genitori vengano perseguiti e condannati. Glieli porteranno via? E in che modo questo si configura come “interesse superiore dei minori”, richiamato anche dalla Corte Costituzionale come criterio guida nelle decisioni normative? Una cattiva legge, insomma.
Perché tanto accanimento? Il sospetto, facile, è che questa sia solo una ennesima legge di bandiera sulla cui attuazione, passato il clamore, nessuno vigilerà. Ma anche così è difficile non percepire l’ostilità, se non il vero e proprio il livore, con cui chi si oppone alla Gpa tratta chi invece la vorrebbe praticare: nei fatti persone che soffrono di infertilità, condizione che l’Organizzazione mondiale della sanità riconosce come malattia. Donne che sono nate senza utero o hanno subito una isterectomia o comunque non sono in grado di condurre una gravidanza e coppie omogenitoriali, cui le biotecnologie riproduttive offrono oggi una opzione che una volta non esisteva.
Un atteggiamento che ricorda quello che circolava ai primi tempi dell’epidemia di Hiv, quando omosessuali e tossicodipendenti, a lungo considerati le uniche categorie a rischio, subivano in pieno la riprovazione e lo stigma sociale. La ministra Roccella si è spinta fino a ricordare ai medici che sarà loro dovere segnalare i sospetti praticanti di Gpa, ottenendo in cambio un secco no dalle principali società scientifiche della categoria.
Che distanza umana e culturale con il percorso che la scorsa estate ha portato l’Irlanda a regolamentare la procreazione medicalmente assistita nel suo complesso, inclusa la gravidanza per altre persone nella versione altruistica e solidale. Una legge che regolamenta l’accesso alla Gpa per tutelare tutte le persone coinvolte, prevenendone i possibili rischi di sfruttamento, con particolare riguardo «ai diritti, agli interessi e al benessere dei bambini nati attraverso la maternità surrogata (sia quelli futuri, sia quelli già esistenti), delle portatrici e dei genitori intenzionali», si legge nell’introduzione al rapporto pubblicato alla conclusione dei lavori legislativi.
Forse ancora più interessante il metodo con cui gli irlandesi sono arrivati alla loro legge, come racconto nel mio libro Gravidanza per altre persone, uscito alla fine di ottobre 2024 per i tipi di Bollati Boringhieri.
I legislatori irlandesi, infatti, hanno incaricato un gruppo di lavoro di ascoltare il punto di vista di tutti i portatori di interesse, comprese le persone nate grazie a un percorso di gravidanza solidale, le donne portatrici e le famiglie che hanno vissuto l’esperienza di una genitorialità attraverso la Gpa. «Condividendo le loro storie personali, hanno fornito ai membri del comitato una visione diretta delle sfide che hanno affrontato e continuano ad affrontare nella loro vita quotidiana», scrivono gli autori del rapporto. Insomma, con pragmatismo e un certo coraggio, la cattolica Irlanda ha voluto affrontare una realtà complessa, riconoscendo che i percorsi verso la genitorialità si stanno trasformando e che la riproduzione medicalmente assistita è diventata un settore dell’assistenza sanitaria che va seguito nelle sue evoluzioni, spesso veloci, per le profonde ricadute che ha sulla vita delle persone.
Davvero l’opposto di quello che avviene nel nostro Paese dove nessuna donna che abbia condotto una gestazione per una coppia che desiderava un figlio è mai stata ascoltata, anzi spesso se ne è negata, a priori, l’esistenza. Nessun ascolto nemmeno delle coppie di genitori, e tantomeno delle giovani persone venute al mondo grazie alla Gpa.
«So che non è normale, ma è normale per me. Ed è quello che conta». Tra gli argomenti di chi obietta al ricorso alla Gpa c’è che i bambini e le bambine soffrirebbero ad essere privati del rapporto con la donna che li ha portati in grembo. Per questo molto interessanti sono i primi studi che arrivano dai Paesi, come il Regno Unito, dove la Gpa è regolamentata da una trentina d’anni. Come quello realizzato da Susan Golombok, professoressa emerita ed ex direttrice del Center for Family Research presso l’università di Cambridge, sulle percezioni e il benessere nelle persone giovani nate attraverso Gpa o fecondazione eterologa. Il lavoro si sviluppa a partire da uno dei pochi studi longitudinali (cioè quelli che seguono lo stesso gruppo di persone nel corso del tempo) disponibili sulle famiglie create grazie alle biotecnologie riproduttive. Nel corso di una ventina d’anni i ricercatori hanno confrontato 65 famiglie con altre 52 formate con concepimento non assistito nello stesso periodo. Ebbene: i risultati confermano che l’assenza di una relazione biologica tra figli e genitori non interferisce con il benessere psicologico dei giovani adulti o nella qualità delle relazioni familiari. «Nonostante le preoccupazioni di molte persone, le famiglie con bambini nati attraverso queste tecniche stanno crescendo bene», riflette Susan Golombok, che aggiunge: «Se abbiamo notato qualche differenza positiva, è nel gruppo delle famiglie che avevano rivelato subito ai bimbi il modo in cui sono venuti al mondo».
Riflettendo sui propri sentimenti riguardo alle origini biologiche, i giovani e le giovani intervistati sono risultati sereni, qualcuno si è sentito più consapevole, un po’ più comprensivo nei confronti della lotta che i genitori hanno affrontato per averlo. Come ha detto uno di loro:
«So che non è normale, ma è normale per me. Ed è quello che conta».
Nuove parole per nuovi percorsi. Se dunque non possiamo appellarci a presunti danni o sofferenze di bimbi e bimbe venuti al mondo grazie alla Gpa, se non possiamo condannare persone la cui unica colpa è aspirare a un progetto di genitorialità contraddetto da limiti fisiologici che oggi si possono aggirare (e le coppie etero secondo le stime di cui disponiamo sono oltre il 90% di quelle coinvolte nei percorsi di Gpa) quali sono le aree grigie della procedura su cui sarebbe proprio di una società civile matura confrontarsi in un discorso pubblico non gravato dal peso dell’ideologia?
Il primo ambito è quello dell’autodeterminazione della donna, messa in discussione dalle leggi contrarie alla Gpa. Una visione non condivisa da tutti.
«L’autonomia della gestante per altri, riconosciuta come soggetto etico che dispone di sé, si esercita nel donare a una persona o una coppia la possibilità di essere genitori e a un bambino o bambina di nascere atteso e desiderato da una famiglia che se ne prende cura. Renderlo possibile significa accettare prospettive sulla procreazione diverse da quella tradizionale, ammettere che una gravidanza possa non coincidere con un desiderio personale di maternità, che la genitorialità possa prescindere da genetica e biologia riproduttiva». Non è un’esponente militante delle famiglie arcobaleno a scrivere queste parole, ma la pastora valdese Ilenya Goss, che coordina la Commissione per i problemi etici posti dalla scienza, composta da teologi, medici e scienziati delle chiese metodiste, valdesi e battiste, che si è espressa aprendo alla Gpa già nell’estate 2023.
L’altro aspetto riguarda il tema del compenso: Gpa solo nella modalità solidale? Questa scelta è già stata fatta da quasi quaranta Paesi nel mondo e lo sarebbe anche in Italia se fosse passata la proposta di legge messa a punto dall’associazione Luca Coscioni.
Eppure, a condizione che sia esclusa qualsiasi forma di sfruttamento, a chi spetta giudicare se una donna, in quanto “soggetto etico che dispone di sé”, possa o meno decidere di offrire la propria capacità di gestazione dietro compenso? Forse l’aspetto più controverso della Gpa e che più si avvantaggerebbe di un sano dibattito pubblico.
Ma la nebbia semantica che ha caratterizzato la narrazione italiana su questo tema non è stata di nessun aiuto, anzi. Così, se l’espressione “utero in affitto” è orribile e giudicante, riducendo la persona che si rende disponibile a condurre una gravidanza per altri alla sola citazione di una parte del suo corpo, ancora più fuorviante è “maternità surrogata”, che non aiuta a capire di che cosa stiamo parlando perché il percorso della Gpa non è affatto un percorso di maternità, ma di gestazione. Ma il punto è esattamente questo: riconoscere che oggi, in virtù delle tecniche di riproduzione medicalmente assistita, le prospettive della procreazione sono cambiate, facendo emergere possibilità meno tradizionali. Uno scenario che può sembrare spaventoso per chi sente messi in discussione i propri sistemi di valore. Ecco perché bisogna parlarne. Correttamente.