Finanza

Numero chiuso (o programmato) a medicina, tra selezione dei ‘migliori’ e uguaglianza delle opportunità

Il 27 novembre scorso, come è noto, il Senato ha approvato il disegno di legge che delega il Governo a revisionare le modalità di accesso ai corsi di laurea magistrale in medicina e chirurgia, in odontoiatria e protesi dentaria e in medicina veterinaria.

Si tratta dell’iniziativa che, impropriamente, è stata da molti presentata come abolizione del numero chiuso a medicina e, anche sorvolando sull’indeterminatezza che perdurerà fino all’esecuzione della delega da parte del governo, come un “passo storico per garantire a tutti i ragazzi l’opportunità di diventare professionisti in ambito medico”. Sono, queste, parole del ministro Bernini, la quale ha anche pronunciato un’altra frase a rischio di ambiguità: “Per il primo anno aboliamo il numero chiuso e i test d’ingresso, ma prevediamo un semestre-filtro con esami caratterizzanti, i cui risultati saranno comunque riconosciuti per percorsi formativi alternativi”. L’ambiguità, al di là dell’imprecisione di chiamare numero chiuso quello che – come molti hanno osservato – è un numero programmato, consiste nell’affermazione che viene abolito il numero chiuso per il primo anno. Abolire per il primo anno ovviamente non vuol dire abolire del tutto, ma sarebbe meglio evitare di deviare l’attenzione usando la parola abolire.

Il numero chiuso (o programmato) non è abolito, ciò che ci si ripromette di cambiare è la modalità di selezione di coloro che, fermo restando il numero chiuso, entreranno definitivamente (e non per il solo semestre-filtro) in uno dei corsi di laurea indicati nella delega. La proposta – modellata, come è stato notato, sull’esperienza francese (tutt’altro che priva di problemi) – è di utilizzare i risultati ottenuti nel primo semestre di corso per decidere chi ammettere al proseguimento degli studi medici, sempre entro i limiti del numero programmato. L’idea è che gli esclusi potranno eventualmente vedersi riconosciuti i crediti per gli esami già sostenuti in altri corsi di laurea ‘compatibili’.

Non è del tutto chiaro se la selezione avverrà soltanto sui risultati del semestre o si farà ricorso – come in realtà appare probabile e anche necessario, dato il maggior rischio di ‘manipolabità’ dei risultati del semestre e, peraltro, in linea con l’esperienza francese – anche a un test, prevedibilmente diverso da quello attualmente in vigore.

In ogni caso, nonostante gli ammessi ai corsi indicati siano cresciuti negli ultimi anni e si prevede che possano ulteriormente crescere, siamo di fronte a un problema di ‘eccesso di domanda’. Negli ultimi anni l’ordine di grandezza è stato di circa 65.000 studenti che domandano di essere ammessi a corsi di laurea in area medica e meno di 20.000 posti disponibili. Quindi un razionamento assai consistente. Gli eccessi di domanda possono, in generale, essere contrastati in vari modi; quello che caratterizza un mercato libero è, naturalmente, il prezzo: quando esso cresce per eccesso di domanda molti domandanti rinunciano (e magari cresce anche l’offerta) eliminando lo squilibrio.

Ovviamente fare affidamento sul prezzo (cioè sulle tasse) per le iscrizioni ai corsi universitari non ha senso, ma non è inutile riflettere sulla ragione per la quale non lo ha. Essenzialmente perché non si può far dipendere dalla possibilità di pagare tasse elevate l’opportunità di accedere alla formazione universitaria e nella disciplina che si preferisce. Tra i vincitori vi sarebbero molti ricchi di famiglia anche se non necessariamente capaci. Occorre, però, fare attenzione perché questo vantaggio da background familiare, potrebbe affiorare anche con gli altri sistemi di razionamento, test o semestre-filtro che sia. E vedremo perché.

Risolvere felicemente il problema del razionamento in questo caso è cosa assai difficile, e non bisogna dimenticarlo. Ma per tentare di farlo è forse utile porsi preliminarmente la seguente domanda: siamo di fronte a una gara, per cui occorre scegliere i più ‘bravi’ (qualunque cosa voglia dire) o siamo ancora nella fase in cui occorre fare il possibile per eguagliare le opportunità (evitando che queste siano offerte solo o soprattutto a chi gode di vantaggi da background familiare)?

L’impressione è che, nelle discussioni sul numero chiuso, prevalga nettamente l’idea della gara e che anche l’eventuale sostituzione del test con il semestre-filtro (seguito o meno da test) sia giustificata (e per molti sia attraente), perché la prospettiva adottata è quella di selezionare i migliori. Ma non dovrebbe essere così e se il problema è anche quello dell’eguaglianza delle opportunità (l’opportunità di laurearsi e fare il medico se lo si desidera) le cose diventano enormemente più complicate.

Diamo per scontato che debba esservi razionamento, cioè che l’offerta di posti in quei corsi di laurea non possa adattarsi alla domanda (anche se molto ci sarebbe da dire sulla possibilità e la necessità di ampliarla, pur tenendo conto non solo dei problemi che sorgono per le università ma anche di quanto potrebbe accadere successivamente nel mercato del lavoro medico). Cosa si può chiedere, in questo caso, a un sistema di razionamento? Vengono in mente due cose che rimandano alle nozioni, familiari agli economisti, di efficienza e equità.

L’efficienza qui richiede che i selezionati non abbandonino l’università, si laureino il più possibile in tempo e ottengano buoni risultati. Appare appropriato parlare di efficienza perché dati i costi sostenuti per la formazione i risultati sono massimi (più o meno) quando gli esiti sono quelli appena indicati. Equità, invece, vuole dire che i selezionati non sono (sistematicamente) coloro che provengono da background favoriti. Si tratta, dunque, di limitare la disuguaglianza di opportunità dovuta alle origini familiari. Trovare un sistema che soddisfi questi due requisiti è quasi una mission impossible. Ma qualcosa si può dire, e cerchiamo di farlo partendo dalla proposta di riforma di cui si discute.

Quanto all’efficienza, se guardiamo ai risultati, rispetto agli obiettivi indicati, raggiunti da quanti sono stati finora ammessi con il test vediamo che si tratta di risultati molto buoni, come certifica l’Anvur. Pochissimi abbandoni, pochi fuori corso – e per periodi limitati -, voti di laurea elevati e anche, come mostra Alma Laurea, tassi di occupazione elevati a 1 e soprattutto a 5 anni dalla laurea. Ciò vuol dire che non è facilissimo fare meglio di così e, peraltro, il nuovo sistema proposto (il semestre-filtro) ha costi rilevanti (ad iniziare da quelli che occorre sostenere per accogliere i molti che si potranno iscrivere al semestre-filtro) che andrebbero confrontati con i benefici aggiuntivi che sarebbero comunque limitati.

Inoltre, e soprattutto, andare alla ricerca dei più bravi dà la sensazione che siano decisive per quei risultati le conoscenze degli studenti all’ingresso e non anche la qualità del corso di laurea che frequenteranno. Ad alimentare il dubbio che non sia così sembrano concorrere gli studi sugli esiti accademici di studenti ammessi in sedi diverse (a livello internazionale) ma con criteri di selezione simili: da quegli studi emerge una grande varianza negli esiti. La questione va approfondita ma è forte il dubbio che per essere medici utili alla società non basti disporre di migliori conoscenze all’inizio del corso di studi, ammesso che si riesca a individuare quelli che ne sono in possesso.

Rispetto all’equità ci si può chiedere se l’influenza familiare si manifesti con maggiore forza nel caso del solo test ovvero in quello del semestre-filtro con prove di esame, ecc. I motivi per pensare che la forza sia maggiore nel secondo caso non mancano e riguardano la gamma di fattori dipendenti dalle origini familiari che influenzano il successo dei figli, accertati dalla letteratura: maggiore aiuto nell’acquisizione delle conoscenze richieste per il superamento degli esami, ruolo delle relazioni sociali e anche delle soft skill che possono influenzare il giudizio sugli studenti da parte di chi li valuta. Tutto ciò non è certo, ma assai probabile.

Quindi la riforma proposta suscita quanto meno il sospetto di essere esposta a due rischi. Il primo è che i miglioramenti sotto il profilo dei risultati siano molto limitati (se vi saranno) e eventualmente raggiungibili solo a costi rilevanti, che non sono solo quelli monetari di organizzazione del semestre-filtro, già ricordati ma anche quelli psicologici sopportati dai giovani esclusi dopo il semestre-filtro. Questi costi sono una delle più riconosciute criticità del sistema francese e sono più elevati di quelli connessi all’insuccesso nel caso di selezione basata soltanto sui test. Dunque la prospettiva è di una perdita di efficienza.

Il secondo rischio è che la composizione del pool dei selezionati sia meno rispettosa dei criteri di equità cioè più sbilanciata verso coloro che provengono da background favoriti, grazie al vantaggio di cui godono nella preparazione degli esami e nella capacità di influenza sui loro risultati. Occorre ribadire che si tratta di nulla più che di plausibili ipotesi e che sono necessarie ulteriori evidenze, ma esse portano a ritenere che conservare lo status quo significa accedere a un più favorevole saldo di costi e benefici rispetto alla prospettata alternativa.

Ma la complessa discussione di come procedere a selezioni che non siano di pregiudizio all’eguaglianza delle opportunità, nel rispetto delle esigenze sociali di efficienza (e il discorso è estensibile al merito) può essere allargata, andando oltre le due ipotesi di cui si è fin qui discusso. E si potrebbe immaginare qualcosa di notevolmente diverso. Proviamo a immaginare.

Anzitutto occorre essere il più possibile certi che coloro che rientrano tra i potenziali ammessi abbiano due caratteristiche: a) elevate capacità di apprendimento (non conoscenze ‘mediche’ già acquisite); b) forte determinazione e preferenza per gli studi in area medica. Si tratta di requisiti non facili da accertare, ma qualcosa si può fare ricorrendo a test appropriati che potrebbero essere modellati sull’esperienza francese. Quest’ultima al termine del semestre (o dei semestri-filtro) prevede due test il secondo dei quali mira proprio a valutare la capacità di riflessione, il progetto professionale e la personalità del candidato.

L’influenza del background familiare sui due requisiti citati per quanto non assente è quasi certamente inferiore a quella che essa ha sulle conoscenze che si vogliono accertare con il test come oggi è concepito e, soprattutto, con il semestre-filtro. L’esito accademico in presenza di queste due condizioni dipende largamente dalla qualità dei corsi di laurea, e questo andrebbe tenuto in considerazione molto più di quanto non si faccia. In breve, l’efficienza di cui si è detto sarebbe raggiungibile grazie alla selezione di studenti con le caratteristiche indicate e alla disponibilità di corsi di laurea di qualità appropriata.

Poiché è presumibile (e anche auspicabile) che l’insieme di coloro che soddisfano i requisiti a) e b) di cui sopra ecceda per numerosità i posti disponibili si pone il problema di selezionare da questo insieme coloro che saranno ammessi.

Non si può pensare che la selezione dovrebbe privilegiare coloro che hanno origini familiari svantaggiate, né ovviamente il contrario. Cosa può, dunque farsi, per evitare che, non potendo dare a tutti le stesse opportunità, queste siano appannaggio di chi gode di qualche privilegio o non siano date a chi, invece, ha qualche privilegio, e non gli siano date solo per questo?

Un’ipotesi di certo anomala e perfino bislacca, ma forse solo fino a un certo punto, è quella di procedere a un sorteggio. Saranno estratti studenti con diversi background di provenienza, ma coloro che lo hanno migliore entreranno nel pool degli ammessi perché lo ha deciso il caso e non le loro origini familiari. La differenza non sembra irrilevante. In più, potranno interagire studenti con background diversi con beneficio potenziale per tutti, come emerge da alcuni studi.

Non basta ricordare, a sostegno del sorteggio, che esso era usato per assegnare le cariche pubbliche nell’antica Atene e anche nelle città rinascimentali. Ma di certo sarà interessante saperne di più dell’esperienza dell’università di Groningen in Olanda, che utilizza il sorteggio più o meno allo scopo che ho indicato.

E’ evidente che siamo di fronte a questioni di grande complessità e alla necessità di scegliere l’alternativa migliore nella consapevolezza che non si potranno raggiungere nel massimo grado gli obiettivi perseguiti. E tra questi non può non esservi quello di evitare che siano decisivi i background e quindi sia violata l’eguale possibilità di accesso a un’opportunità quale è quella di poter essere, da grande, un medico, come si mostra di desiderare.

In conclusione, tornando alla proposta di riforma vi sono molti dubbi che quella proposta possa migliorare le cose rispetto allo status quo. Ma sarebbe bene cercare di meglio. E verrebbe da augurarsi che la delega al governo serva per dibattere di questi temi senza ambiguità, rendendo espliciti gli obiettivi che si intendono perseguire e utilizzando le migliori evidenze per sostenere l’adeguatezza delle soluzioni proposte a raggiungere, o almeno a avvicinare, quegli obiettivi. Per concludere, il minimo che si possa chiedere viene da esprimerlo con una perifrasi che appare appropriata dato il tema: evidence based reform, please. E per una riforma che non si limiti a selezionare i (presunti) migliori ma preservi, anche, l’eguaglianza delle opportunità.