Pensioni: cinque miti ingessano il dibattito. Superiamoli per affrontare il “trilemma dell’ adeguatezza”
Anche nel 2024 non c’è stata alcuna riforma organica delle pensioni, bensì la riproposizione di alcuni interventi al margine che, oltre a determinare una persistente dannosa incertezza delle regole previdenziali, non delineano alcuna soluzione efficace e duratura per affrontare le due grandi questioni al centro dell’agenda: i) come bilanciare le esigenze di sostenibilità economico-finanziaria con quelle di equità nel (pre-)pensionamento dei lavoratori prossimi alla quiescenza, specie quelli con carriere lunghe e/o impiegati in mansioni gravose; ii) come assicurare un futuro pensionistico adeguato ed equo alle giovani generazioni.
Lo stallo, ormai decennale, rispetto alla necessità di una riforma organica del sistema deriva in ampia parte dall’“ingessatura” del dibattito pensionistico entro il quadro cognitivo-normativo plasmato dalle grandi riforme degli anni ’90: una cornice rigida, di impianto marcatamente neoliberista, che produce importanti effetti regressivi. Tale impianto si fonda su – e trova la sua legittimazione in – 5 miti fondamentali, che è opportuno mettere a fuoco e, possibilmente, superare se si vuole affrontare efficacemente il «trilemma dell’adeguatezza» delle pensioni: cioè l’efficiente ed equa combinazione di i) prevenzione della povertà nella vecchiaia, ii) mantenimento di un livello adeguato di reddito per i lavoratori pensionati, iii) ad età pensionabili congrue e sostenibili sul piano sociale.
Vediamo questi miti.
Mito n.1: l’equità del contributivo. «Prenderai sotto forma di pensione quanto hai versato durante la carriera lavorativa» è il motto retorico che promuove l’idea di equità iscritta nel contributivo, il metodo di calcolo delle pensioni oggi prevalente (nella forma mista o pura) per i pensionandi. In realtà, la corrispondenza tra contributi complessivamente versati e prestazioni ricevute si verifica solo per quei lavoratori che abbiano un’aspettativa di vita, al momento del pensionamento, pari al valore medio tra la popolazione. Nei fatti, invece, il metodo contributivo produce effetti fortemente regressivi a svantaggio dei gruppi e delle categorie con minore longevità: gli individui con più basso titolo di studio, che iniziano a lavorare presto, generalmente occupati in attività manuali e/o più gravose e con livelli di reddito più modesti, per i quali l’aspettativa di vita è in Italia di 3-5 anni inferiore rispetto ai gruppi più avvantaggiati.
Mito n. 2: le pensioni dei lavoratori vanno finanziate solo tramite contributi sociali. Intimamente legata al mito della corrispondenza tra contributi e prestazioni a livello individuale è l’idea che – con il passaggio al contributivo – la spesa per le pensioni dei lavoratori debba essere integralmente sostenuta dai contributi previdenziali: in altre parole, il sistema pensionistico dovrebbe essere in equilibrio finanziario e «autosufficiente», senza gravare sulla finanza pubblica. Caso italiano e analisi comparata mostrano la natura «mitologica» di tale narrazione. In Italia, la quota di spesa pensionistica a carico dei contributi sociali è diminuita dal 71% nel 2005 al 65% nel 2015, ma non si tratta di un caso isolato: i dati elaborati dallo European Social Policy Network ci dicono che tale tendenza è visibile in diversi paesi europei e soprattutto che solo in tre paesi (Cechia, Ungheria e Lettonia) i contributi sociali rappresentano oltre il 70% delle entrate per le prestazioni di vecchiaia, mentre la quota scende al 70% in Svezia, al 66% in Germania, al 59% e 42% in Olanda e Belgio. Insomma, mentre si ripete il ritornello che le pensioni devono essere finanziate soltanto tramite contributi sociali, la quota a carico della fiscalità generale è elevata in molti paesi europei e in Italia è aumentata dal 17,7% nel 2005 al 22,4% nel 2015.
Corollario ai due miti precedenti è il Mito n.3, secondo cui il contributivo funziona come «pilota automatico» che protegge dal «rischio politico»: esso mantiene cioè la spesa sotto controllo senza richiedere riforme sottrattive, rischiose e di difficile attuazione. Sul piano meramente economico, è vero che il contributivo include due potenti stabilizzatori automatici della spesa che “immunizzano” il sistema pensionistico rispetto al rischio demografico (invecchiamento) ed economico (bassa crescita). La credenza secondo cui, con l’entrata a regime del contributivo, i parametri cruciali delle pensioni sarebbero affidati a uno strumento tecnico sottovaluta però drammaticamente l’importanza delle pensioni nella sfera politica. In quanto “diritti sociali” non è infatti opportuno che esse possano essere regolate in isolamento dal sistema di rappresentanza politica e intermediazione degli interessi. Ma non è nemmeno realistico: il «pilota automatico» del contributivo può infatti essere sempre disattivato dal decisore politico – al fine di bilanciare le esigenze della sostenibilità economico-finanziaria con gli imperativi dell’adeguatezza sociale – come già avvenuto nel 2014 quando si decise di sospendere il meccanismo di rivalutazione dei contributi, che per la prima volta avrebbe comportato una rivalutazione negativa degli stessi a danno del livello delle prestazioni future.
Più recente è il Mito n. 4: l’aumento dell’aspettativa di vita può (deve!) tradursi in un pari aumento dell’età pensionabile al fine disinnescare i rischi connessi all’invecchiamento demografico – l’aspettativa di vita alla nascita è infatti aumentata dai 77 anni del 1989 a 81,8 nel 2009 e 83,6 nel 2019, mentre negli ultimi anni si è registrata una diminuzione a 82,3 (2020) 82,7 anni (2021) e 82,8 (2022). La trasposizione integrale di tali aumenti in incrementi dell’età pensionabile è però problematica per ben quattro ragioni. Primo, i differenziali nell’aspettativa di vita delineati sopra. Secondo, così come la longevità non varia in modo casuale ma è soggetta a fattori di natura socio-economica e professionale, anche l’incremento di questa è condizionato dagli stessi fattori, per cui l’aspettativa di vita aumenta in modo minore tra i ceti svantaggiati. Terzo, gli anni di vita attesi in buona salute a 65 anni sono in Italia circa la metà (10,1) rispetto all’aspettativa di vita (20,6 anni) e, soprattutto, i primi mostrano un quadro di sostanziale stabilità rispetto all’incremento della seconda. Quarto, sul piano normativo, è discutibile che qualsiasi miglioramento nella durata della vita debba essere destinato ad estendere la durata della vita attiva.
Mito n. 5: i problemi relativi all’adeguatezza delle pensioni si risolvono migliorando il funzionamento del mercato del lavoro. Il quinto mito nasce generalmente dal riconoscimento che un problema di adeguatezza delle prestazioni esiste per le giovani generazioni soggette al contributivo ed entrate in un mercato del lavoro con un livello di flessibilità sconosciuto fino agli anni ‘90, che si rifletterà inevitabilmente sulla frammentazione delle carriere. A fronte di tale sfida, la soluzione proposta – senza mettere in discussione la cornice contributiva o ipotizzando solo alcuni correttivi al margine della stessa – consiste spesso nell’evocare che i problemi dell’adeguatezza sono da ricondursi alla debole performance del mercato del lavoro italiano e che è su quel versante che bisogna, di conseguenza, agire.
Premesso che un migliore funzionamento del mercato del lavoro è auspicabile tanto sul piano sistemico – perché consentirebbe di ampliare la base di prelievo fiscale e contributivo incrementando le risorse a disposizione – quanto a livello individuale – perché genererebbe prestazioni pensionistiche più elevate per una quota di lavoratori – la soluzione proposta appare debole da due diverse angolature.
In primo luogo, migliorare rendimento e funzionamento del mercato del lavoro non è operazione facile: dalla metà degli anni ’90 i governi italiani hanno introdotto dosi massicce di flessibilità (anche) al fine di favorire l’incremento di occupazione; i risultati sono stati però deludenti e soprattutto hanno generato importanti quote di occupazione «precaria», che appunto espone i lavoratori ai rischi derivanti dalla combinazione flessibilità lavorativa-metodo contributivo delineati sopra. Creare «buona occupazione» è ovviamente ancora più complicato, poiché dipende in buona parte dalle caratteristiche strutturali del tessuto produttivo e, in ultima analisi, dalle condizioni della domanda, su cui non è facile intervenire specie in tempi, a questo punto, necessariamente stretti.
In seconda istanza, la ricerca comparata ha mostrato che anche in paesi con mercati del lavoro molto più efficienti di quello italiano – con tassi di occupazione elevati e, talvolta, anche minori quote di occupazione temporanea – l’incontro tra flessibilità e regole previdenziali ha richiesto l’adozione di riforme pensionistiche volte a disinnescare il rischio di inadeguatezza delle prestazioni per i lavoratori con carriere brevi, discontinue, interrotte, spesso a bassa retribuzione. Tali riforme, orientate a perseguire un migliore adattamento – o institutional adjustment, per dirla con Peter Flora (The Western European Welfare States Since World War II, Walter de Gruyter, 1986) – dei sistemi di tutela della vecchiaia a mercati del lavoro post-industriali caratterizzati da quote massicce di lavoratori flessibili e precari, sono state adottate tra gli altri in Svizzera, Olanda, Danimarca, Regno Unito e hanno segnato la strada da percorrere nella direzione dell’adeguatezza: pur in contesti istituzionali differenti da quello italiano, le soluzioni adottate puntano chiaramente verso una maggiore capacità redistributiva del primo pilastro pensionistico e – ove necessario e opportuno – una maggiore inclusività sia del sistema pubblico che dei pilastri complementari a capitalizzazione (K. Hinrichs e M.Jessoula, Labour Market Flexibility and Pension Reforms. Flexible Today, Secure Tomorrow? Palgrave Macmillan, 2012). L’esperienza comparata suggerisce, quindi, di avviare la riflessione sulla riforma del sistema pensionistico, muovendo dalla consapevolezza che l’adeguatezza delle prestazioni per i lavoratori attualmente occupati in un mercato del lavoro post-industriale non può essere semplicemente affidata al buon funzionamento di quest’ultimo, bensì deve essere perseguita tramite un buon disegno del sistema di tutela della vecchiaia che consenta a quest’ultimo di adattarsi alle trasformazioni strutturali intercorse – e a quelle che sopraggiungeranno, si pensi all’impatto della digitalizzazione – attutendo l’impatto dell’accresciuta flessibilità e precarietà sul valore delle pensioni future.
Superare i “miti” previdenziali presentati in questo breve contributo è dunque necessario al fine di affrontare il «trilemma dell’adeguatezza» delle pensioni e disegnare una riforma organica che, neutralizzando gli effetti regressivi delle riforme Amato, Dini e Monti-Fornero, definisca un nuovo modello che non sia solo sostenibile sul piano economico-finanziario, ma anche sociale e (per conseguenza) politico.